Il Mattino intervista l’ex Sbrizzo: «Il calcio mi nauseava,a 30 anni smisi. Poi trovai l’America»
Il calcio come fine ma anche come inizio, anzi nuovo inizio. Questa la storia di Alessandro Sbrizzo, napoletano ed ex difensore del Napoli. A 30 anni ha smesso di giocare perché letteralmente nauseato dal calcio e da quello che lo circondava. Poi un viaggio negli Stati Uniti gli ha letteralmente cambiato la vita.
Come mai ha smesso a soli 30 anni?
«La retrocessione con il Pescara mi ha scottato».
Perché?
«Quella era l’epoca di Calciopoli e degli scandali arbitrali e noi a Pescara ci eravamo accorti di un accordo per farci retrocedere. Le partite erano tutte stregate. Quella retrocessione ha portato la società a cambiare i programmi dopo 5 anni che ero li. Ero deluso, anzi nauseato da tutto quello che avevo vissuto».
Ma non solo.
«Mi scadeva il contratto e le offerte che mi erano arrivate erano poco appetibili da parte di squadre di C1 e C2. In poche parole dovevo fare più un favore a loro a giocare lì che loro a me. E dopo 7 mesi di attesa ho deciso di smettere. Andare a giocare per tirare avanti e senza progetti validi non aveva senso. Ho scelto di anticipare i tempi e uscire dal calcio».
Ha parlato di nausea per il calcio.
«O appartenevi a certi gruppi o eri destinato ad andare contro i mulini a vento. La nausea veniva da quel sistema. In sei mesi al Savoia in C1 non sono mai stato pagato e sono dovuto ricorrere alla Federazione per ricevere gli stipendi».
Poi cosa è successo?
«Mi sono trovato ad andare a Miami per una casualità: ero stato lì in vacanza quando giocavo e mi era piaciuta, così ho comprato casa e quando ho smesso di giocare avevo voglia di cambiare aria e mi sono trasferito partendo all’avventura. Una volta lì per una serie di combinazioni mi sono imbattuto nel Milan».
E a quel punto?
«Per tre anni ho collaborato con l’Academy del Milan a Miami. Poi i rossoneri hanno terminato il progetto e io ho continuato con un’accademia americana: ho seguito 2500 ragazzi fino a diventare dirigente della struttura».
Cosa faceva?
«Ho preso tutti patentini da allenatore e ho iniziato la mia esperienza allenando bambini e bambine dai 4 ai 18 anni».
Anche bambine, ha detto.
«Il calcio femminile negli Usa è avanti anni luce. Quando si confrontano con le italiane le americane sono superiori. Qui in Italia è ancora un tabù, mentre lì la ragazzina si apre subito al calcio. Ma è una questione anche di opportunità, perché in America le ragazze brave a calcio hanno la possibilità di entrare all’università con borse di studio sportive».
La difficoltà più grande che ha trovato nella sua nuova vita?
«Sicuramente la lingua».
E come ha superato il problema?
«Avevo delle basi e poi ho imparato giorno dopo giorno frequentando anche un po’ di scuola. Il resto è venuto da sé. Alla scuola calcio parlavo inglese con i ragazzi e in spagnolo con gli adulti. Il primo anno tornavo a casa col mal di testa tra italiano, inglese e spagnolo. Ma per scelta non frequentavo italiani».
Poi c’è stato anche l’amore a dagli una mano.
«Ho sposato Alicia, una ragazza uruguaiana che con lo spagnolo è stata fondamentale. Ci siamo conosciuti a Miami e ci siamo anche sposati lì».
E dal punto di vista calcistico che difficoltà ha trovato?
«La prima cosa è stato dovermi svestire di quello che avevo imparato in Italia da calciatore e successivamente entrare nella loro mentalità. Il problema principale degli Usa era quello di essere un calcio ancora vergine. Dovevo fare dei grossi passi indietro iniziando proprio da zero».
Ora sono tante le proprietà americane che sono sbarcate in Italia per acquistate club di serie A: che impressione ha avuto della loro idea imprenditoriale?
«Il calcio italiano fa gola anche all’estero anche perché gruppi seri e volenterosi in Italia non ce ne sono. Gli imprenditori americani come Pallotta, Saputo, Tacopina o Commisso vengono da una cultura di investimento dello sport che in America è da numeri uno: sanno fare business nello sport. Ma attenzione, il loro è un modello che funziona bene negli States, ma quando viene esportato può avere delle difficoltà perché si scontra con mentalità diverse».
Cosa intende?
«Oggi le società devono pensare di brandizzare il loro marchio, altrimenti avrai sempre dei limiti. Chi viene da fuori porta questa mentalità e questa ventata».
Dopo 10 anni è tornato in Italia, di cosa si occupa oggi?
«Adesso sto collaborando con Gaetano Fedele in un progetto che ovviamente ha a che fare anche con gli Stati Uniti».
Di cosa si tratta?
«Organizziamo tournée per portare squadre e giocatori americani in Italia e viceversa. Ovviamente portiamo anche le ragazze, che come dicevo negli States hanno molte possibilità dal punto di vista calcistico».
Quindi si può dire che ha fatto pace con il calcio?
«Il calcio l’ho amato e lo amo, e per via delle mie esperienze passate quello in cui mi prodigo di più è insegnare ai giovani i valori sani piuttosto che insegnare loro come si gioca a calcio. Mi sento più istruttore che allenatore».
Cosa porta con sé della sua esperienza al Napoli?
«In quel periodo sono stato accompagnato da infortuni non gravissimi ma fastidiosi. Nel momento più importante sono stato bloccato. Ma so che la carriera passa anche da queste cose e infatti a distanza di anni è rimasto grande rispetto con tutti i miei ex compagni. Pur non frequentandoci il rapporto è rimasto».
L’allenatore a cui è più legato?
«Difficile dirne uno solo perché tutti loro hanno sempre creduto nella mia formazione come calciatore e come uomo. Mi sono incontrato qualche mese fa con Ulivieri e l’ho ringraziato. Perché nonostante ai tempi in cui ero un suo giocatore tra noi non ci fosse un grande rapporto, mi sono ritrovato tante cose che mi aveva insegnato. Avere degli allenatori che sono attenti a determinati particolari ti segna”.
Fonte: Il Mattino