Tarcisio, la roccia: “La mia seconda giovinezza a Napoli grazie a Vinicio”
Sarti, Burgnich, Facchetti…E’ la formazione della grande Inter di Helenio Herrera che vinse due Coppe dei Campioni e due Coppe Intercontinentali di fila a metà anni Sessanta, spiccava il cognome di Tarcisio la Roccia, probabilmente uno dei difensori che maggiormente ha contribuito alla nascita della leggenda della impenetrabilità delle retroguardia italiane e del catenaccio. Domani la Roccia compie 80 anni. Tre di questi vissuti a Napoli. Parla ai microfoni de Il Mattino:
Burgnich, era la roccia pure a Napoli anche se arrivò che aveva 35 anni? «Una seconda giovinezza, grazie a Vinicio prima e Pesaola poi. Dicevano che ero vecchio, ma nelle prime due stagioni non saltai neppure una partita. Mi venne il magone quando mi dissero che sarei dovuto andare in Terronia. Ma è stata un’avventura fantastica della mia vita, peraltro anni prima ero stato anche a Palermo, dove pure ero stato una favola».
Certo, non deve essere stato facile sapere dell’addio all’Inter? «Anche per il modo. Ero già reduce dalla delusione in Germania Ovest, dove con l’Italia al Mondiale del 74 eravamo usciti al primo turno e ci avevano accolti al ritorno con i pomodori. Io andai ad Appiano e mi sorpresi incontrando Franco Janich, il direttore sportivo del Napoli, che venne incontro sorridente e mi disse: Adesso sei dei nostri, faremo grandi cose insieme. Come, dei vostri? Dei vostri, chi? Mi avevano ceduto senza dirmi nulla, dopo 12 anni. Mica avrei fatto problemi, mica ero un ragazzino. Ma ditemi qualcosa voi dell’Inter che siete stati la mia famiglia per quasi tutta la mia vita calcistica».
Che stagioni ha vissuto al Napoli? «Io avevo un ginocchio che non era proprio al top ed era il vero motivo per cui all’Inter mi avevano mandato via, non certo per l’età. Trovai al Napoli Vinicio, che già da attaccante non era mai stato facile da fermare. Aveva delle idee innovative di calcio, un 4-4-2 che ci portava ad andare tutti all’attacco. E io pure mi ritrovai a giocare felice in attacco ogni volta che potevo: un calcio innovativo, sorprendente. Mi diceva che ero un difensore che doveva far gioco avanzando a centrocampo. Nell’Inter ero rimasto sempre rintanato dietro ai difensori a spazzare palloni. Io ho scoperto la gioia di giocare al calcio, non solo difendere e basta».
Herrera le ha cambiato la vita? «Non solo a me. Ma era un tipo duro, pesante. O stavi a sentire quello che diceva lui o non ci potevi andare d’accordo. Era stato povero, molto povero, e ci esortava a non buttare via i soldi. Aveva la mania dei ritiri, multava chi giocava a carte. Vinicio no, faceva del dialogo l’arma in più, più permissivo. Eravamo un grande gruppo al Napoli, eravamo uniti. Con la sua zona abbiamo sfiorato lo scudetto. E mi sono divertito».
Quella sconfitta con la Juventus nel 1975 è un ricordo amaro come la sconfitta a Mantova con l’Inter? «Per carità, non c’è paragone. C’è gente di quell’Inter che non si è mai più ripresa dallo choc per quello scudetto perso all’ultima giornata. Io pure ce ne ho messo di tempo, Sarti non si è ripreso facilmente. Credo che davvero non sono mai stato così male come quella volta».
Però se la prese – e molto – anche dopo aver perso la semifinale di Coppa delle Coppe con l’Anderlecht nel 77? «Che rabbia, lì in Belgio fummo praticamente scippati. Una ingiustizia quell’eliminazione, ho inseguito l’arbitro (Matthewson, ndr) fino a dentro lo spogliatoio, ero furioso. Non volevo più giocare al calcio. Avrei potuto chiudere la mia carriera con un altro successo internazionale, dopo le Coppe dei Campioni e le Intercontinentali con l’Inter. Il Napoli avrebbe meritato qualcosa in più in quegli anni: conquistammo solo una Coppa Italia, poco per il valore di quel gruppo. Ma se mi giro indietro, ammetto che mi è andata molto bene nella mia carriera».
Napoli le ha regalato pure un altro sorriso: semifinale dell’Europeo del 1968. «Contro l’Unione Sovietica finisce in parità. Allora non c’erano i rigori, ma la monetina. Tutti erano agitati nello spogliatoio, tranne me. Ero tranquillo perché era Giacinto Facchetti che doveva scegliere la parte giusta. E sapevo benissimo che non avrebbe sbagliato, non avevo dubbi. Poco dopo sentimmo il boato del San Paolo».
Ha segnato poco, pochissimo, ma un gol è nella memoria di tutti gli italiani. «Sì, il 2-2 in Italia-Germania Ovest ai Mondiali di Mexico 70. Non era solo una partita: per i tedeschi noi italiani eravamo fannulloni, deboli, loro ci vedevano senza attributi. Fu per noi il riscatto di una generazione, finalmente un’Italia che le dava alla Germania. Quel 4-3 è la storia dell’Italia, non solo dell’Italia calcistica. Peraltro, mio padre la Grande Guerra l’ha combattuta con gli austro-ungarici, perché il mio paese era al confine. A 20 anni giocavo in serie A con l’Udinese ma all’allenamento ci andavo in autobus e dopo aver lavorato».
Torniamo a quel gol alla Germania? «Rivera di me diceva che avevo gli zoccoli ai piedi e non le scarpe. Feci gol con un rimpallo, non so neppure io perché ero così in avanti. Eravamo un gruppo straordinario, non come in Inghilterra nel 66 e in Germania Ovest nel 74».
C’è una foto che la perseguita, immagino. Pelé salta di testa e c’è lei, Burgnich, là sotto di lui. «Eravamo cotti dopo i supplementari con la Germania Ovest, io avevo passato tre giorni a letto per recuperare. Loro avevano giocato sempre sui 1500 metri, noi sempre oltre i 2000 metri. E anche questo ha fatto la differenza. Il gol? Si vede che vado storto, anche perché da poco Valcareggi aveva deciso di cambiare marcatura spostando me su Pelé e Bertini su Rivellino. Bisognava avere il coraggio di cambiare tutta la squadra, questa è la verità, per quella finale».
In Germania nel 1974 andò tutto storto, invece. «Sì. Juliano e Chinaglia guidavano la rabbia delle squadre del Sud che nonostante i buoni risultati in campionato si ritrovavano con pochi giocatori convocati in Nazionale. E, peraltro, giocando anche poco o nulla. Non eravamo un gruppo, naturale uscire subito».
Come si diventa grandi difensori? «Ci vuole umiltà. L’attaccante deve avere fantasia, il difensore no. Gli tocca sempre la seconda mossa, si muove in base a come si muove l’avversario. Se lui vuole fare una cosa, il difensore glielo deve impedire».
Perché la Roccia? «Fu Armando Picchi a chiamarmi così. In una partita con la Spal arrivai a contendermi il pallone con la loro ala, Novelli. Ci fu uno scontro Novelli rimbalzò a tre metri e rimase a terra come l’avesse investito un camion. Ti capisco, sei andato a sbattere contro una roccia, andò a consolarlo Picchi».
Senza Var, chissà quante botte e colpi proibiti tra di voi in campo? «Non è così. Per prima cosa gli arbitri erano meno permissivi, ai miei tempi. E poi, giocando addosso all’uomo, non potevi fargli molto male. Roba minima, spintine, calcettini, ma senza rincorsa. Oggi vedo falli molto più violenti, carognate vere. Una domenica a San Siro con una gomitata Riva mi ha buttato giù due denti. Appena ho potuto gli ho reso il fallaccio, e poi mi sono scusato».