Tutti si vergognano, ma evidentemente la vergogna non è abbastanza. Il coraggio non è del calcio. L’opinione di Ciccio Marolda sulle colonne del Corriere dello Sport: “Io mi vergogno, tu ti vergogni, tutti si vergognano. Da sempre ad ogni insulto becero e razzista è corsa alla vergogna collettiva. Non ne parliamo del pallone, poi. Da quell’inizio del 2013, da quel giorno in cui Boateng si sfilò la maglia e se ne andò dal campo a Busto Arsizio quasi ogni domenica la vergogna è andata in processione. L’ultima volta è toccato a Koulibaly prestare la faccia e la pelle al sacrificio, ma servirà a qualcosa? Certo. Anzi, è già servito al pallone per dare pace alla sua coscienza almeno sino al prossimo insulto e alla prossima processione di indignati. «Mi sono vergognato di dire a mia madre quello che è successo». No, non è una battuta di Mississippi Burning (Le radici dell’odio) di Alan Parker e neppure di Ghosts from the Past (L’agguato) di Rob Reiner: sono parole di Koulibaly. Intime tristezze di qualche giorno fa. Ferite sanguinanti da rozza provincia rurale dell’America del Sud della metà del Novecento, non certo da civilissima Italia del Duemila e passa. Parole da brividi. Traccia da tema in classe ove mai esistesse una scuola coraggiosa. Già, ma perché dovrebbe essere la scuola coraggiosa se prima di tutti non ha coraggio il calcio? Se il calcio non alza la voce e non protesta – anche sui campi di seconda, terza e quarta fila – per chiedere ai custodi del potere culture tolleranti da una parte e, dall’altra, il pugno di ferro contro i barbari moderni?
Illusioni. Come quella della Lazio di poter strapazzare un Napoli orfano di tre o quattro imprescindibili signori. E qui sta l’errore.