Fabio Cannavaro: “Razzismo territoriale? Mi chiamavano dovunque terrone”

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Fabio Cannavaro, un napoletano con le mani sulla Coppa. Non una qualsiasi, no. Quella del mondo. E’ già il momento di andar via, portandosi ancora una volta, Napoli nel cuore. La sua avventura in Cina sta per ripartire e i giorni trascorsi a ammirare il Vesuvio e il Golfo sono già finiti.

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Lei quanti ne ha presi di insulti razzisti?
«Forse persino più io che il mio amico Thuram. Ma, sbagliando probabilmente, li ho sempre considerati degli sfottò, un modo della tifoseria avversaria per dimostrare il timore nei tuoi confronti. Però è chiaro che chiamare terrone un calciatore o fare buu a uno di colore è razzismo punto e basta. E non va bene».
Cosa fare, allora?
«Gli stadi sono terra di nessuno. Si pensa che prima, durante e dopo una partita quello che si fa resta impunito. Non è così. Ecco, si parta da qui».
Le sarebbe piaciuto trovare una arbitro che fermasse una partita al primo terrone nei suoi confronti?
«Oggi dico sì. Anche se per me era uno stimolo a dare ancora di più. Quante volte con Thuram abbiamo provato a sdrammatizzare. Poi io venivo insultato mica solo al Nord: a Lecce e Reggio Calabria erano spietati contro di me. Io la prendevo a ridere, ma oggi è diverso. Non c’è nulla di ridere perché poi fuori ci scappa il morto. A Parma, una volta, sentivo che mi cantavano Cannavaro terrun, guardo giù ed era un ragazzo di colore a farlo. Ma come tu mi chiami così? e scoppiammo a ridere»

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