L’ex azzurro Scarnecchia, il campo come la cucina: “Guanciale e castagne per Ancelotti”
Un velocista, Roberto Scarnecchia. I suoi cento metri venivano cronometrati da Nils Liedholm: undici secondi. Il tecnico svedese se ne meravigliava tutte le volte. Undici secondi il suo tempo, undici sulla sua maglia. Nella stagione 82/83, quella giocata con il Napoli, la indossò, però, poche volte. Ha chiamato “Undici”anche il suo ristorante, anzi, uno dei suoi ristoranti: perché Scarnecchia adesso fa il cuoco, il manager, l’imprenditore e pure un programma in tv.
Il calcio solo un pezzo della sua strada insomma?
«Ma senza quegli anni, non avrei avuto la tranquillità per andare negli Stati Uniti a studiare, a laurearmi, a prendere un po’ di Master, a seguire la passione per la cucina che ho ereditato da mio padre, mia madre e da mia nonna. A dire il vero, sono stato prima cuoco e poi calciatore».
Vero che cucinava per i suoi compagni in ritiro?
«Verissimo. Chiedete a Carletto se ero bravo o no? Per i miei spaghetti, pomodoro e basilico c’era la fila la sera prima della partita della Roma. Ancelotti era goloso di tutto. E impazzivano per la frittata di zucchine e patate, così come del mio filetto, che lasciavo frullare per ore. Sembrano piatti facili, ma più facili sembrano e più difficili sono. Carlo, d’altronde, è sempre stato una buona forchetta. Lui è emiliano, goloso ma anche grande conoscitore delle materie prime. Ne capisce di cucina, anche per le sue tradizioni familiari. E non poco».
Se viene stasera nel suo ristorante che gli fa mangiare?
«Sicuramente lui vuole un piatto di pasta. Ne sono certo. E io che uso solo prodotti stagionali avrei il compito di cucinargli qualcosa con le castagne. Ecco, lo farei morire con guanciale e castagne».
Lei non ha mai chiuso davvero con il calcio?
«Mi è rimasto dentro il pallone. Ho fatto l’allenatore, molto a lungo al Derthona, Voghera, Seregno. Mi prese il Legnano e avrei dovuto esordire in serie C: ma la società fallì proprio quell’estate. Trovo che il mestiere del tecnico sia simile a quello del cuoco. Anche in cucina bisogna organizzare una brigata, curare gli acquisti dei prodotti, metterli assieme: progettare la linea della preparazione dei piatti corrisponde all’allenamento prima della partita. Si tratta in entrambi i casi di strategie. Poi cucinare è come giocare al calcio: tanta adrenalina ma anche divertimento e passione».
Cosa è stato per lei Napoli?
«Ci sono stato poco ma il Roberto cuoco ha sempre inseguito quei sapori unici dei piatti di paccheri allo scoglio o ai frutti di mare che si mangiavano sul lungomare nei locali storici della città. Io, Ferrario, Castellini, Krol eravamo un gruppo di ghiottoni…».
Col Napoli non andò benissimo, invece.
«Mi aveva voluto a ogni costo Giacomini, arrivai con Vagheggi ma dopo poco il tecnico andò via e arrivò Pesaola. Un grande uomo, ma forse aveva l’esigenza di rompere con le scelte del predecessore. Giocai pochissimo nel girone di ritorno, lui pensava che fossi un’alternativa a Diaz e Pellegrini invece potevo tranquillamente giocare a centrocampo. Nulla da fare. Però il panorama che vedevo dalla mia casa a Posillipo era unico e straordinario».
Lo stesso che ha incantato il suo amico Ancelotti.
«Immagino. Ho mantenuto il rapporto. Ma più che parlare di calcio, con lui va a finire che si parla sempre di cucina. Però con il Napoli sta facendo un bel lavoro, mi diverte vedere gli azzurri giocare come mi divertiva vedere Sarri».
Più difficile diventare chef di successo o campioni di calcio?
«Ci vuole fatica per la scalata. Tutti pensano di essere diventati come Gordon Ramsay solo perché hanno preparato un buon antipasto così come uno si sente Maradona solo per aver fatto un bel gol in Coppa Italia. Bisogna impegnarsi con serietà in ogni cosa che si fa. A sedici anni ho fatto anche il maestro di sci prima di andare alla Roma ed esordire in serie A».
Una volta al Processo del lunedì fecero ironia per il suo cognome.
«Fu Maurizio Mosca. Gli risposi: guardi ci sono pure Marocchino e Cuccureddu che non penso se la passino meglio di me…».
Cosa le ha dato il calcio?
«Notorietà e serenità economica».
Tra un programma di cucina e una partita di calcio cosa vede?
«Dipende dalla qualità ma sempre meglio andarsi a fare un bel piatto di tonnarelli cacio e pepe o di spaghetti. Io ho un programma di cucina, Mister Chef, sul canale tematico della Roma, il 213, niente a che vedere con Hell’s Kitchen o Masterchef. Mi diverte mostrare i miei piatti».
Invece chi la diverte a vedere giocare?
«Non mi perdo una gara del Barcellona. Lì c’è Messi, è spettacolo puro. Come si fa a non restare incollati alla tv quando ci sono loro sul terreno di gioco?».
Anche la sua Roma negli anni 80′ dava spettacolo?
«Certo e se allora ci fosse stata la Var magari a Turone avrebbero convalidato il gol e avrei pure vinto uno scudetto».
Piatto napoletano preferito?
«La pizza. Soffice. L’impasto che si fa a Napoli è unico. Niente a che vedere con la croccantezza della pizza romana. Non c’è storia, secondo me. Meglio la pizza napoletana».
Scarnecchia calciatore lo ricordiamo. E Scarnecchia cuoco?
«La gente vuole piatti di gusto pieno, facilmente comprensibili. Tutti noi siamo un po’ vanitosi, propensi a cercare i complimenti degli altri. Ed è la ricerca di questa gratificazione che guida ognuno di noi. E anche me».
Sua figlia Valentina è food blogger. Non è un caso, vero?
«Ha seguito la scia delle passioni mie, dei nonni ma anche della madre: ha avuto tante persone intorno che cucinavano bene e ha imparato. Ora è una delle influencer più importanti della tv. Ne sono orgoglioso».
Parvin, la mamma di Valentina, in seconde nozze ha sposato Beppe Grillo. Lei, cucina anche per lui?
«No, per lui no. Non lo vedo mai. Penso ci pensi Valentina».
Ma pensava che sarebbe diventato un leader politico così influente in Italia?
«È una persona che ha sempre avuto un fascino particolare, una conoscenza importante della vita italiana, per fare satira devi conoscere il Paese. E da qui ha ricavato lo spunto per iniziare il suo progetto. Non è facile fare quello che sta facendo».
Lo apre un ristorante a Napoli?
«Dopo Genova, Roma e Milano, non vedo l’ora».
Fonte: Il Mattino