Ibrahimovic: «Carlo è un papà adottivo ecco perché tutti lo adorano»
Ibrahimovic, che a 37 anni si prepara per l’ennesimo trasloco della sua carriera (lascerà i Los Angeles Galaxy per tornare alMilan), è uno dei fuoriclasse che Ancelotti ha allenato. C’è un rapporto speciale tra i due, che insieme hanno vinto il titolo con il Paris St. Germain nel 2013, e Zlatan lo ricorda nell’autobiografia «Io sono il calcio» (Rizzoli, pagg. 300, euro 35). Un titolo pretenzioso ma non troppo perché, come rivelò Verratti, un giorno Carlo chiese a Ibra «ma pensi di essere dio?» e lui nello spogliatoio del Psg rispose tranquillamente «sì». È probabile che l’allenatore inarcò il sopracciglio sinistro però ancora oggi lui ritiene il bomber svedese uno di quei calciatori che bisogna saper prendere, non un arrogante. E Ibra nelle pagine dedicate alla sua agrodolce esperienza a Parigi scrive di Ancelotti: «Dopo la prima stagione dovette lasciare e fu come un pugno nello stomaco. Andavo molto d’accordo con lui ed era veramente una persona che mi piaceva. Chiedete pure a chiunque abbia avuto Ancelotti come allenatore: non importa che giocassero o sedessero in panchina, vi risponderanno tutti che lo adoravano. Era il nostro papà adottivo. Un allenatore e un amico, era tutto per noi. Lui è sicuramente il migliore allenatore che si possa desiderare. Era adorato». Nelle trecento pagine, scritte con il giornalista Mats Olsson, ci sono il racconto di una grande storia in prima persona con un ringraziamento al calcio («Mi ha dato una vita e una serenità che mai avrei potuto immaginare: coltiva il tuo talento, credi in te stesso, lavora sodo e niente potrà fermarti») e le interviste di chi ha conosciuto bene Ibra, o di chi vive al suo fianco, come il procuratore Mino Raiola, figlio di emigrati campani che conobbe il campione ai tempi dell’Ajax nel ristorante che gestivano i suoi genitori ad Amsterdam. Zlatan è stato il primo diamante da esporre in una vetrina dove da un anno – anche se non ancora ufficialmente – c’è anche l’azzurro Insigne. Mino, inventore dei «mal di pancia» dei suoi assistiti (malesseri che terminavano appena arrivavano l’accordo a sei zeri con un nuovo club e il pagamento di ottime percentuali), racconta come difficile fu l’approccio a un campione di cui è diventato in pochissimo tempo agente e fratello, facendogli firmare contratti da sogno, l’ultimo a Los Angeles. «Dove sta preparando la prossima tappa della sua vita, che lo vedrà o attore o grande uomo d’affari. Vedo il Galaxy come un trattamento terapeutico per lui», spiega nel libro il manager, che intanto ha gettato le basi per il clamoroso ritorno di Ibra al Milan: cinema e business extracalcistici possono attendere.
Fonte: Il Mattino