Gaetano De Rosa dà lezioni di calcio, che è quasi come insegnare la vita. Lo fa da dirigente nella scuola calcio del Real Cesarea, a Casalnuovo. Da quando ha smesso di giocare, la sua mission è diventata quella di insegnare ai ragazzi. Ma non solo come si tira in porta o come si fa una diagonale difensiva, ma «a diventare gli uomini del futuro».
A parole sembra facile, ma nei fatti? «Fin dal primo giorno in cui ho smesso di giocare mi sono detto di dover accantonare tutta la mia esperienza e chiedermi quale fosse il mio ruolo in questa realtà e cosa potevo dare quotidianamente».
E cosa ha fatto? «Il ruolo è in via di evoluzione. Mi sono trovato qui grazie a Ciccio Troise, non sapevo neanche da dove iniziare. La scuola calcio è un mondo a parte. Ora sono referente degli istruttori e con la società c’è un rapporto che mi permette di lavorare a 360 gradi. La scuola calcio oggi è un valore importante per la società moderna».
In che senso? «Laddove in una società come la nostra stanno mancando i riferimenti, la scuola calcio ha il vantaggio di insegnare attraverso il gioco e quando si parla di disciplina, regole e valori dello sporto, si deve insegnare tutto».
Insomma, l’ha presa proprio sul serio. «Oggi ne stanno parlando, ma siamo già in ritardo. Prendersi cura di se stessi rincorrendo i valori della vita è importante. Noi siamo ciò che scegliamo di essere. Vogliamo abituare i ragazzi a diventare forti nella mente. Non è il più bravo che diventa calciatore ma chi riesce a gestire il talento e restare fermo davanti ai bivi».
Questa decisione è frutto di esperienze personali? «A 19 anni ho avuto la mia più grossa crisi: non sapevo che fare. Quello che è successo a me mi aiuta molto a capire che i ragazzi hanno bisogno sempre di sostegno e di una parola di conforto. Allo stesso tempo, però, necessitano anche di regole per delimitare i confini».
Il progetto del Real Casarea sta riscuotendo successo anche a livello internazionale. «Lo scorso anno abbiamo ricevuto un premio dalla Uefa come miglior scuola calcio non solo per meriti sportivi. Perché quello tecnico è l’aspetto che viene per ultimo. La nostra è una scuola calcio che propone dei valori dello sport e ha delle iniziative sociali».
Di che genere? «Abbiamo una classe nostra all’interno dell’istituto Archimede di Ponticelli».
E cosa fate lì? «Ci occupiamo dei ragazzi per farli crescere al meglio. Se uno di loro pensa Non posso fare il calciatore ma ho questa passione, noi cerchiamo di aiutarlo a trovare uno spazio nel mondo che gli piace».
È un’iniziativa davvero unica. «Non sappiamo quanti di questi ragazzi saranno calciatori ma saranno parte della nostra società e saranno tutti futuri adulti. Se non incidiamo adesso non li recuperiamo più».
Ma il Gaetano De Rosa studente che tipo era? «Un disastro. Quando ho fatto il mio esordio con il Napoli nel 1993 non volevo andare in trasmissioni televisive perché avevo paura della telecamera e paura di sbagliare a dire qualcosa».
Davvero? «Non ho studiato. Sono autodidatta. Quello che faccio oggi è merito della mia capacità di osservare gli altri e sopratutto merito di una famiglia che mi ha sempre educato ai valori della vita. I miei sono sempre stati lavoratori e mi hanno insegnato il senso del sacrificio. Quando oggi i genitori si lamentano se il figlio gioca in questa o in quell’altra posizione, mi prende un nodo allo stomaco».
Perché? «Ricordo di quando ero nel settore giovanile col Napoli e per anni mi chiamavano per fare il guardalinee. Praticamente non giocavo mai, ma mio padre non mi ha mai detto nulla. Ha sempre accantonato le raccomandazioni e lo ringrazio».
La sua carta di identità non mente, e dice che lei è nato a Dusserlorf in Germania, ma non mente neppure il suo accento napoletano: come mai? «I miei genitori sono napoletani, ma negli annoi ’70 erano in Germania per lavoro e così sono nato lì insieme a mio fratello Salvatore, Siamo tornati in Italia nell’84».
Ma il calcio ha sempre fatto parte della sua vita? «La mia prima squadra calcio è stata la Wfl Benrath, perché mio cugino si iscrisse lì e io per competizione feci lo stesso. Il calcio è il mio compagno di vita».
Poi è venuto il Napoli. «Ho fatto tutta la trafila nel settore giovanile e poi il 16 maggio 1993 ho fatto il mio esordio contro il Pescara».
Se lo ricorda? «Mi tremavano le gambe. Ero talmente emozionato che mi sentivo bloccato. Giocare accanto a campioni come Careca, Ferrara e gli altri non lo avevo ancora metabolizzato. La più grande soddisfazione era quella di indossare la maglia della prima squadra. Perché i ragazzi come me hanno vissuto tutta l’era Maradona davanti al Paradiso. Mi ha fatto esordire Bianchi anche se già l’anno prima con Ranieri ero fisso in prima squadra».
E cosa è successo dopo? «Le cose non sono andate bene e non aver lasciato il segno a Napoli è ancora oggi uno dei miei rimpianti maggiori».
Come mai è andata così? «In azzurro ho vissuto il peggior momento della mia vita perché tornavo dopo l’esperienza a Palermo dove non feci bene nel girone di ritorno. Questa cosa non aveva inciso bene sull’aspetto personale e non ero al meglio delle mie condizioni. Ci ho impiegato due anni a ritornare in me stesso. A quel punto ho strappato il contratto col Napoli e per un mese sono stato alla Pistoiese da militare».
Quando c’è stata la svolta? «A settembre della stagione successiva quando ho deciso di firmare con il Savoia ripartendo dalla serie C. In quel momento mi sono detto: o ci riesco oppure mi metto a fare il muratore».
E alla fine ce l’ha fatta. «Torre Annunziata e l’unica città con la quale mi sento in debito. Mi hanno dato di più di quello che meritassi: stima e fiducia ma io non stavo al meglio. Il secondo anno ho fatto bene e mi ha dato l’occasione di rilanciarmi».
Ma cosa porta dietro della sua esperienza con il Napoli? «Un bel gruppo di amici. Abbiamo una chat con Fabio Cannavaro, Ciro Caruso, Ciccio Troise e tanti altri. Quando Fabio torna dalla Cina ci vediamo praticamente sempre».
Fonte: Il Mattino