Celestini si racconta al Mattino: “Altro che droni, meglio Pesaola”
Celestini ha 57 anni, vive ancora di calcio e sulla costa ligure è praticamente di casa, visto che da 11 anni consecutivi si alterna alla guida di Entella, Rapallo, Savona, Chiavari, Lavagnese e così via.
Celestini, il golfo del Tigullio e è la sua seconda casa ormai?
«Forse perché mi ricorda la mia prima casa, Capri. Il mare è azzurro come giù da me: ho iniziato a fare l’allenatore nella mia isola, un bel progetto che alla fine degli anni 90 in pochi anni ci ha portato in Eccellenza. Poi all’improvviso si sono fatti fulminare dal dio denaro e il pallone è scoppiato. Ed è stato un vero peccato. A Capri c’è la mia fanciullezza, papà e mamma che mi nascondevano i giornali per non farmi sapere che il Napoli aveva perso perché sennò mi veniva la febbre e non andavo a scuola, i primi calci nella Religione e Patria di Anacapri e nella Mater Tiberio di Capri».
Che allenatore è Celestini?
«Uno all’antica, senza droni o altro. Porto un quaderno, prendo appunti, ricordo quasi tutto a memoria, non ho molti assistenti. Sono tra i Dilettanti perché non pago nessuno per allenare. Ora la prima cosa che chiedono è se hai con te uno sponsor. Ma che stiamo scherzando?».
Come giocano le sue squadre?
«3-4-3. E voglio sempre un Celestini in campo, ovvero uno che gioca sempre addosso all’uomo, che si faccia sentire, che dia qualche spinta ma senza far male a nessuno. Qui a Sestri ho 12 Under 20 perché a questi livelli non avrebbe senso fare calcio se non con i giovani».
Lei era il cattivo della squadra?
«Calci li ho dati a tutti ma sia ben chiaro mai entrato col piede a martello o dato delle gomitate. Certo, non facevo passare nessuno. E mai fatto carognate».
In quegli anni, però, aveva confuso l’area avversaria con il mare dei Faraglioni?
«Macché… pure il Var avrebbe confermato che erano tutti rigori quelli che mi fischiavano. Tutti. Poi non era colpa mia se riuscivo ad anticipare i mie avversari con la mia corsa. Ingenui loro. Certo, un pochino accentuavo la caduta, magari era molto scenica. Ma a toccarmi, mi toccavano. Poi quello era un anno assurdo, e quando stai per morire tutto è consentito».
Con i rigori che si procurava il Napoli si salvò. Era il 1983.
«Una stagione incredibile. Con Rambone e Pesaola le cose cambiarono. Il Petisso, che uomo! Io ero un guerriero, ma lui aveva la capacità di trasformarmi in un gladiatore. Un motivatore straordinario, unico. Sarei andato a nuoto a Capri per lui».
Come ha fatto a diventare una pedina così importante per quel Napoli?
«Sostanzialmente bisogna essere umili. E poi sempre concentrati. Non ce ne sono tanti di centrocampisti all’antica nel calcio moderno. Forse Allan. Quando marchi il più forte degli altri, ti tocca sempre la seconda mossa, ti muovi in base a come si muove l’avversario. Lui vuole fare una cosa, tu devi impedirglielo. Ma i miei maestri erano tecnicamente dei geni del calcio: Sormani, Cané e Mariolino Corso. E poi che lezioni mi hanno dato campioni come Krol, Dirceu, Bertoni, Diaz. Rudy era speciale: il primo ad arrivare al campo e l’ultimo ad andarsene. Io che ero cresciuto vedendo la grande Olanda non potevo crederci. E ai miei giocatori di adesso che spesso mi dicono che ai miei tempi non facevano nulla in allenamento porto come esempio l’olandese. E ogni tanto gli faccio fare la metà delle cose che facevano noi con Marchesi o Bianchi: li stendo».
Uno scudetto e una Coppa Italia: il suo periodo d’oro è quello?
«Anche se un bel pezzo di quella stagione 86/87 ero infortunato, ma la gioia della gente era contagiosa. Il ricordo più bello in azzurro è però lo scudetto del 79, con la squadra Primavera. Da poco io, Caffarelli, Raimondo e Vincenzo Marino, Nuccio, Di Fusco, Sponsillo, Della Volpe, Palo e gli altri abbiamo creato un gruppo su WhatsApp: vogliamo organizzare delle partite per beneficenza».
Col Sestri Levante, dopo 4 giornate, non ha ancora vinto?
«Abbiamo un progetto che punta sui giovani, con un budget limitato. Vogliamo salvarci. Ci sono tanti ragazzini e io porto con me gli insegnamenti di Pesaola e Rambone che ci facevano vivere ogni momento difficile in maniera soave, calma, come se dovessimo giocare un’amichevole. Ora anche vedendo la serie A pare che in tanti siano usciti dal Grande Fratello».
Mai litigato con Maradona?
«Impossibile litigare con Diego. Però una volta ci rimase male: c’era un’amichevole tra il Napoli e l’Argentina al San Paolo e io lo marcai in maniera soft, mica potevo fare come facevo con gli altri. Mi chiese la maglia a fine gara ma io l’avevo promessa a un altro, a Borghi».
Vero che i rigori li voleva tirare lei?
«Vero, ma poi li calciava sempre Ferrario. All’epoca la regola era che chi procurava il rigore era meglio che non lo calciava».
Sogna ancora di allenare in serie B o magari in serie A?
«Un professionista è un dilettante che non ha mai mollato. Io però i miei sogni li ho realizzati tutti: volevo giocare con il Napoli come il mio idolo Juliano e volevo essere il capitano degli azzurri, cosa che ho fatto quando Bruscolotti si è assentato per l’epatite virale».
Chi l’ha ispirata come allenatore?
«Sormani e Corso sono stati insegnanti di tecnica, Rino Marchesi era un tranquillone che prima di ogni gara ripeteva sempre se non possiamo vincere, non dobbiamo perdere e Bianchi era uno che trattava i big e le ultime ruote del carro tutte allo stesso modo».
Anche lei ha un cappotto portafortuna come Pesaola?
«No, anche perché il Petisso aveva anche un rosario che portava in panchina. Però a volte faccio come lui faceva con me: mi inginocchio in panchina e con la mano faccio il gesto di andare in attacco. Ma senza che nessuno mi veda, con l’altra mano dico di difendere il risultato».
I suoi allenatore preferiti?
«Zeman è entusiasmante ma Gasperini fa un bel calcio a Bergamo».
Fonte: Il Mattino