CdS – “MOGGI CONFESSA”. Il Dg radiato e mai pentito
“Moggi lo conosco (parla il suo intervistatore, Giancarlo Dotto)da quando era il boss della Juve. Lui fa finta di protestare, ma neanche tanto, quando lo chiamano “boss”. Io non ci faccio caso. I boss veri, quelli che comandano con un’impercettibile declinazione dello sguardo, si percepiscono come uomini virtuosi. Da Al Capone in giù. Luciano mi piace perché è un boss da manuale, cinematografico, e anche un italiano vero. Ha il culto della famiglia, il capello tinto, gioca a carte, gli piace sedere a capotavola, fuma il sigaro in faccia alla gente e ha la statua di Padre Pio in giardino. E quando ha finito di mangiare ha la patacca di sugo al centro della camicia come un colpo al cuore. Lui è un onestissimo prototipo e di questo gli sono riconoscente, nel senso che si fa riconoscere”.
Colossale granchio pensarlo in braghe e ozi da pensionato. Lucianone è più vivo che mai. Lo hanno radiato ma non sdraiato. Il suo sguardo è sempre quello di un boss. Sembra fissare il vuoto, ma solo perché devi essere tu a meritarti il diritto di essere accolto nel suo raggio. Adesso ha imparato a giocare anche a burraco e naturalmente odia perdere. Infatti, vince.
Trent’anni più o meno che ci conosciamo.
«Non lo dire, che poi fanno i conti».
Presto fatti: 81 anni appena compiuti e stai una bellezza.
«Cerco di tenermi in forma. Tapis roulant, cyclette, vogatore. Sai com’è, qui non bisogna mollare».
E tu non molli.
«Non me lo posso permettere. Se non lavoro, non mangio».
Nel frattempo, sei diventato giornalista. Devo chiamarti collega?
«Il calcio resta la mia vita, anche se quello di oggi mi fa schifo. Anche volendo, non potrei starne fuori. Continuano a telefonarmi. Mi chiedono consigli. Dessi retta a tutti, oggi avrei più lavoro di prima».
Chi ti chiama?
«Gli amici. Ne ho tanti ancora nel calcio. Ma resto vicino alla mia Juve. Con Andrea Agnelli mi sento spesso. E’ un ragazzo sveglio. E’ stato con noi 12 anni e ha imparato tutto. Lui lo sa bene che gli scudetti sono 36, tutti conquistati sul campo. Nessuno ha mai aiutato la Juve a vincere».
Cristiano Ronaldo. L’hai suggerito tu?
«No, lì è roba Fiat. E comunque io Cristiano Ronaldo l’avevo comprato. Aveva 18 anni e giocava nello Sporting di Lisbona. Lo vidi e la mattina dopo firmai il contratto. Cinque miliardi più il nostro Salas, al quale avrei anche regalato un miliardo di buonuscita. Ma poi Salas preferì il River Plate e su Ronaldo arrivò il Manchester United. All’epoca era crisi nera alla Juve. Non avevamo una lira».
L’avresti preso oggi?
«Come marketing, un’operazione straordinaria. Ma io non avrei mai preso un giocatore di 33 anni a quelle cifre e certo non l’avrei mai sbandierato prima di vendere Higuain, uno che comunque ti fa 20 gol a campionato».
Metodo Moggi?
«Prima avrei venduto Higuain per 50 milioni e solo dopo avrei annunciato Ronaldo. Vuoi sapere la storia vera di Zidane al Real? Viene da me il mio amico Florentino Perez e mi fa: “Punto a diventare presidente del Real, se dico che compro Zidane posso riuscirci”. Gli rispondo: “Ti autorizzo a sbandierare questa cosa, ma poi non so se te lo do davvero».
Gliel’hai dato.
«Quando capisco che Perez poteva essere eletto davvero, vado in gran segreto da Cragnotti e compro Nedved, a Parma prendo Buffon e Thuram. Nessuno sapeva niente di Zidane. Avessero saputo, quei tre li avrei pagati molto di più. E poi ho incassato i 150 miliardi di Zidane, di cui 145 di plusvalenza».
Buffon l’hai comprato mica a poco, 100 miliardi.
«Buffon l’ho pagato 50 miliardi più Bachini, che abbiamo valutato 45 miliardi. Dimmi te se non è stato un grande affare, pensando poi al dopo di Buffon e a quello di Bachini».
Zidane, roba tua?
«Andammo a vedere Bordeaux-Milan. Io presi Zidane per 5 miliardi, il Milan Dugarry per 18».
Cristiano Ronaldo alla Juve sarà quello del Real?
«Difficile. Da noi marcano duro. Uno ti mena e l’altro ti toglie la palla. Quando consigliai Higuain alla Juve dissi: lo spersonalizziamo e lo adattiamo alla squadra. Adesso, invece, dobbiamo spersonalizzare la squadra per adattarla a Cristiano Ronaldo…».
Il marchio Ronaldo offusca il marchio Juve. Non si dice più vado a giocare contro la Juve, ma contro Cristiano Ronaldo.
«Sono d’accordo. Florentino Perez mi disse di Cristiano Ronaldo che lui non giocava nel Real Madrid ma nel Real Ronaldo. Dalla Spagna mi hanno fatto notare che se segna un compagno lui non va mai a esultare. Se segna lui, sceneggiate grandiose».
Euforia incontenibile nell’ambiente.
«Pericolosa come tutti gli eccessi. Ho consigliato ad Allegri di stemperare. Lui mi ascolta».
Bonucci l’avresti ripreso?«No. Dare Caldara al Milan in cambio è stata una cazzata. Ma hanno dovuto farlo per evitare una pesante minusvalenza su Higuain».
Lo scudetto.
«Lo vince l’Inter alla grande. Conosco poco Spalletti, mi sembra un prete quando parla, ma hanno fatto una gran squadra. Hanno preso un centrale difensivo forte, uno in mezzo al campo che tira la linea, Nainggolan, e un campionissimo là davanti, quel Martinez».
Le altre?
«La Roma ha venduto certezze e comprato speranze. Il problema lì è che si fabbricano eroi in dieci minuti, vedi Kluivert. Il Napoli è da primi posti, ma non vedo come possa vincere».
Ancelotti in panchina non basta?
«Grande allenatore, non si discute, oltre che un ragazzo eccezionale, ma non può bastare».
Grande allenatore, ma tu l’hai fatto fuori alla Juve.
«Non aveva l’esperienza giusta e comunque fece due buoni campionati con noi. Ci hanno sfilato due scudetti, il primo anno con Collina e il diluvio di Perugia, il secondo quando fu permesso alla Roma di schierare Nakata contro di noi a Torino, poi decisivo».
Resta il fatto che hai preso Lippi al suo posto.
«E’ stata la sua fortuna. La svolta della sua vita. Stava andando a firmare a Parma con una squadra turca. Mi telefonò Berlusconi e mi chiese referenze. Ne parlai benissimo. Mi disse: “Chiamalo e mandalo da me”. Dal Milan in poi Carlo ha allenato solo grandi club».
Quando i tifosi lo chiamavano “maiale”, voi società non l’avete difeso.
«Parlai con i tifosi e dissi: “Ancelotti è un maiale? Allora sappiate che per la prima volta un maiale andrà in panchina, perché Ancelotti sarà l’allenatore della Juventus”. Poi, chiaro, alle prime sconfitte la cosa tornò fuori».
Hai visto l’intemerata di Lotito contro Simone Inzaghi?
«Il problema sarebbe stato se l’avesse fatto davanti alla squadra, ma così in privato può essere un’utile svegliata. Lotito è fatto così, è un dittatore, ma ha salvato la Lazio e la tiene ai vertici del calcio. Sai come l’ho conosciuto, Lotito?».
Mi manca.
«Quando andai alla Roma, lui era fidanzato con la figlia di Mezzaroma, socio di Sensi allora. All’epoca era romanista, Lotito. Mi stava sempre addosso, mi rompeva. “Me lo levi di torno questo qui!”, dicevo al suocero».
L’avevi sottovalutato.
«Da presidente della Lazio, mi telefona. “Hai visto?”. “Mo’, ti faranno il culo, vedrai”, gli dissi. Invece, è stato il più bravo di tutti, ha superato ogni ostacolo. Ha una marcia in più».
Tu. Sfoghi analoghi con un tuo allenatore?
«Una volta con Bigon. Ho vinto un campionato al Napoli con lui, che poi non ha vinto più nulla. Brava persona, ma faceva il sindacalista».
Riprovevole?
«A febbraio voleva rinnovare il contratto. Gli dissi: “Aspettiamo la fine del campionato”. Un giorno arrivo allo stadio prima della partita e Ferlaino mi dice: “Bigon si rifiuta di parlare con la squadra”. Chiamo Bigon: “Se non parli entro cinque minuti, te ne vai fuori dai coglioni e vado io in panchina”. Così»
E lui?
«Parlò con la squadra. Poi, a fine stagione, lo mandai via».
Cazziatoni a giocatori?
«Ne ricordo uno a Zebina. Dopo quattro mesi che stava alla Juve, infortunato, mi chiese un prolungamento di contratto e un aumento di stipendio, parlando male di Capello. L’avresti dovuto vedere come se ne andava correndo giù dalle scale».
Dodici anni dal grande scandalo. Tangentopoli non ha migliorato la politica e Calciopoli non sembra aver migliorato il pallone.
«Era il 2008. Giraudo disse: “Ci cacciate via. Ma vedrete i banditi e gli incapaci che arriveranno dopo di noi”. Aveva ragione. Questi non riescono nemmeno a nominare i presidenti di federazione e lega. E poi, i procuratori che dettano legge, i presidenti che fanno i direttori sportivi. Nelle serie minori ci sono società che tesserano i giovani e si fanno pagare dai genitori… Possono fare tutte le sentenze che vogliono, ma io sono uno che ha sempre lavorato duro e dovunque andavo ho sempre creato i budget sani, comprando a poco e vendendo a tanto. La mia unica, vera ambizione ancora oggi è farmi dire “bravo!”. Davvero».
Chi è stato il primo a dirti bravo?
«Italo Allodi. Mi ha insegnato tutto del calcio. Mi prese come osservatore alla Juventus e cacciò via tutti gli altri. Ci sapevo fare. Causio, Paolo Rossi, Tardelli, Gentile, Scirea, li ho scoperti io».
Fu accusato, Allodi, di essere un corruttore di arbitri.
«Sapeva fare il suo mestiere. Era stimato da tutti. Ma fu assolto da ogni imputazione. Ha pagato con la salute per le cattiverie subite».
Gli Allodi di oggi.
«Non ci sono più. Uno era Pierpaolo Marino. Ci stava arrivando, ma si è fermato. Igli Tare della Lazio sta facendo passi da gigante. Lavora nell’ombra, silenzioso, ma tira fuori squadre eccellenti».
Ti sei dimenticato di Marotta.
«Bravo amministratore, ma ha un complemento tecnico fondamentale in Paratici».
Fai il bravo ragazzo, pentiti, confessa le tue colpe. Se non per me, fallo per Padre Pio che ti guarda ed è pronto ad assolverti dal fondo del giardino.
«Dovevo difendermi. Alla Juve avevo due occhi davanti e due dietro. Subodoravo le cose. Carraro e Galliani, presidenti di federazione e di lega, facevano gli interessi del Milan e Facchetti faceva lobbing con gli arbitri a favore dell’Inter».
Eviterei di parlare di Facchetti. Eccesso di legittima difesa. Almeno questo vogliamo ammetterlo?
«Parlavo con i designatori arbitrali, è vero. Ma allora era consentito e nessuno può dire che ho mai chiesto di vincere una partita. Chiedevo solo arbitri all’altezza. E’ un illecito questo? Il problema vero è che dentro la Juventus c’era una resa dei conti per farci fuori».
Racconta.
«Quella famiglia Agnelli è sempre stata un Far West e avevano paura che Giraudo, delfino di Umberto Agnelli, prendesse troppo potere».
Giraudo e Bettega, i tuoi compari alla Juve.
«Giraudo era un grande commercialista. Bettega una persona eccezionale, ma andava comandato. Era un soldatino. Una volta lo mandai a Toronto per una sponsorizzazione dalla sera alla mattina».
Calciopoli secondo Luciano: erano Galliani e Carraro le anime nere.
«Non ci sono dubbi. Basta ascoltare le intercettazioni telefoniche per dedurre che Carraro controllava Bergamo».
Nella percezione della gente, non solo dei giudici, sei tu l’anima nera.
«Muore Wojtyla sabato sera, noi in ritiro a Firenze. Si doveva rinviare a lunedì. La partita fu posticipata di una settimana. Galliani, presidente della Lega, intercettato, chiama Costacurta e gli fa: “Abbiamo spostato di una settimana, così recuperiamo Kakà infortunato…”. Ti basta?».
No.
«Anno 2004. Due ore dopo il sorteggio, Carraro chiama Bergamo. “Chi è l’arbitro di Inter-Juventus?” “Rodomonti”. Due ore prima della partita, Bergamo chiama Rodomonti: “Come ti stai organizzando? Stai attento, che è molto difficile andare su ma poi ci si mette un niente a precipitare…”».
Non sei credibile nella parte della vittima.
«Ce ne hanno fatte di tutti i colori. Quella volta del nubifragio a Perugia, ci hanno tolto lo scudetto. Collina, sponsorizzato dal Milan, decise 74 minuti di sospensione. Fossi stato un arrogante come dicono, dovevo andarmene con la squadra, ma ce l’avrebbero fatta pagare dopo».
La ferita continua a buttare sangue.
«La gente non le sa certe cose. Quando, alle 8 di sera, dopo un Milan-Juventus perso in casa dal Milan, Bergamo telefona a Galliani e gli dice: “Direttore, a casa mia abbiamo pianto”. Parentesi, Alessandra, la moglie di Bergamo, è milanista. “Non avrei mai pensato che la Juve con Collina arbitro avrebbe vinto col Milan”. Non ti basta ancora?».
La storia di Paparesta chiuso a chiave nello spogliatoio?
«Una bufala. L’avrei menato quel giorno, ci aveva fatto perdere una partita vinta. Ma che mi metto a chiuderlo nello spogliatoio e buttare la chiavi? Quale sarebbe stato il vantaggio? Fu solo una battuta e per quella battuta mi hanno radiato».
La storia delle schede svizzere…
«Le ho fatte per proteggere il mio lavoro. Io, Stankovic, l’avevo preso per la Juve. Me l’ha soffiato l’Inter con le intercettazioni di Telecom».
Le hai regalate agli arbitri.
«Per altri motivi. Gli inquirenti dissero che erano mute, che non potevano essere intercettate, ma non era così. Solo che si sentivano gli arbitri parlare con le loro amanti e puttane».
Massimo De Santis, l’unico arbitro condannato, era un vostro amico.
«L’hanno associato a noi senza motivo. Ti racconto questa. Fiorentina in lotta per non retrocedere, Milan a un punto da noi. Martedì alle 14 Meani, dirigente del Milan, chiama De Santis: “Guarda che abbiamo Kakà e Rui Costa diffidati, non li ammonire che poi la partita dopo abbiamo la Juve”».
E lui?
«Fosse stato un nostro sodale, avrebbe chiamato l’ufficio inchieste e il Milan sarebbe finito in B. Se ricordi quella partita, De Santis negò un rigore alla Fiorentina e permise a quelli del Milan di menare. Noi zitti. La mattina dopo De Santis chiama Meani: “Hai visto, solo io riesco a non farli parlare quelli…”. Meani: “Te sei un amico, l’ho già detto a Galliani”».
Ripartizioni di merito in quella tua Juve vincente?
«Settanta per cento la società, il restante trenta da dividere tra allenatore e giocatori».
Alla Juve vincere è l’unica cosa che conta.
«Questo lo diceva Boniperti, non io. Io ho sempre voluto vincere sul campo con la forza della squadra… I giocatori mi temevano e mi rispettavano anche a mille chilometri. Si sarebbero buttati dalla finestra per me. Erano miei dipendenti ma li trattavo come amici, fino a che non mi davano motivo di cambiare».
Urge esempio.
«Ibrahimovic. Quando Cobolli Gigli lo chiamò per convincerlo a dichiarare che era lui a voler andar via, rispose: “Non vi preoccupate, con i dirigenti di prima sarei andato anche in B, con voi non resto”».
Bel gattaccio da pelare, Ibra.
«Non per me. Io con una caramella gli facevo fare il giro del mondo. Ibra è il contrario di quello che dicono. Se ti rispetta, ti dà tutto, ti aiuta anche nello spogliatoio. Davids a Milano era considerato un demonio, con noi è stato perfetto».
Considerato un attaccabrighe, Ibra.
«Solo con Zebina ci fu un problema. Quello lo menava di brutto in allenamento. Un giorno gli fece un fallo bestiale e Ibra gli mollò un gran cazzotto. Fu ricoverato in ospedale con un occhio nero. Dovetti dire che aveva una gastrite importante. Poi, presi da parte Ibra: “Niente multa, hai fatto bene. Se non lo facevi tu, l’avrei fatto io”».
Talenti ma anche tante teste calde. Come si gestiscono?
«Come un padre di famiglia. Dicevano che la Juve era una caserma. Falso. I calciatori andavano tutti all’”Hollywood”, a Milano, la domenica dopo la partita. “Andate pure”, dicevo, “scopate, fate quello che volete, ma non voglio scandali. E non andate se giochiamo la coppa di mercoledì. Trezeguet era l’unico che non mi dava retta. Andava all’“Hollywood” anche quando non doveva. Una sera trovò me che l’aspettavo. Da allora non c’è andato più. Mai battuto i pugni sul tavolo. Chi lo fa, non sa comandare. Io facevo la riunione il giovedì con gli allenatori. Analizzavamo la partita e poi dicevo democraticamente: Io farei così”».
E loro?
«Facevano così».
Oggi il bad boy è Nainggolan.
«Io l’avrei raddrizzato. Montero mi diceva che per lui il giorno era la notte. “Paolo, finché il campo mi racconta che sei uno dei migliori, non m’importa”. Quando si è sposato e tornava a casa alle 8 di sera, ha smesso di giocare. Gli ho detto un giorno: “Paolo torna a frequentare i locali, se no ti caccio”».
Nel tuo ufficio a Torino avevi una tela con le immagini dei fuoriusciti Baggio, Vialli e Ravanelli.
«Era un monito per i miei giocatori quando mi creavano problemi con i contratti. “Ragazzi volete fare la fine di questi, volete entrare anche voi nel quadro?”».
Baggio ti ha fatto tribolare?
«Lo mandai via perché voleva giocare dietro le punte, ma non mollava mai il pallone e gli attaccanti si lamentavano. “Non sei adatto per la Juve”, gli dissi. E, infatti, a Brescia fece 23 gol. Lui aveva detto ai capi tifosi che non gli avevo fatto la proposta di rinnovo. Li convocai davanti a lui e gli feci fare una figuraccia mostrando la proposta di rinnovo”».
Ha rischiato anche Del Piero di finire nel quadro?
«Mai. Lui resta un grandissimo, un’icona della Juve. Vero è che nell’anno di Calciopoli fece una dichiarazione antipatica: “Se resta Capello, vado via io”».
Andò via Capello.
«A un certo punto fu complicato gestire Del Piero. Voleva giocare dopo un anno e mezzo d’infortunio e non era in grado. Mise in difficoltà Capello e, a quanto mi risulta, ha creato problemi importanti anche a Ferrara”».
Tu e il “nemico” Moratti.
«Prima di Calciopoli, mi aveva preso all’Inter. Alla Juve avevo fatto il mio tempo. Firmai il contratto. Moratti mi chiese di dar via Moriero. Riuscii a venderlo al Middlesbrough, ma lasciai il merito a Mazzola. Il giorno dopo vengo a sapere che avevano rinnovato il contratto a Moriero».
Il più grande di tutti?
«Maradona. Quando viene in Italia il primo che chiama sono io. Avesse avuto un’altra testa…Quella volta a Mosca per punirlo, lo tenni in panchina 80 minuti a patire il freddo. In tribuna c’erano le sedie riscaldate».
Dopo Maradona?
«Zidane e Ibra. Ibra lo metto anche davanti a Zidane. Era uno che ti portava la squadra nell’area avversaria. Con lui Nocerino, dico Nocerino, fece 11 gol».
Balotelli. Un talento buttato via o uno sopravvalutato?
«Non lo considero affatto un talento. Non sarebbe mai titolare in una mia squadra. E’ lento e non gioca con gli altri. Sa solo tirare in porta. Può andare bene in una squadra di mezza classifica”.
Meglio Cassano?
«Non c’è paragone. Dieci volte più forte Cassano. C’è del genio nel suo calcio e io avevo cercato di portarlo alla Juve. Disse che eravamo una caserma e che non sarebbe mai venuto. Oggi quando parla di me dice : “E’ stata una sfortuna non aver incontrato Moggi sulla mia strada. Vuole tornare a 36 anni, forse è troppo tardi, ma se veramente si mette in testa che è la sua ultima occasione…”».
Il tuo allenatore.
«Dipende dai giocatori che hai. Assurdo prendere Sarri al Chelsea dopo che hai giocato due anni con Conte. A Napoli, dopo Sarri, vanno bene Ancelotti o Capello che fanno gioco corale, meno bene Conte o Lippi».
Capello?
«E’ un aziendalista. L’allenatore italiano che più si avvicina ai manager inglesi. Una volta venne Ibra da me: “Capello vuol farmi giocare a sinistra”. Io gli dissi: “Non ti preoccupare. Vai in campo e gioca dove ti pare”».
C’era una volta Ventura.
«Uno scandalo. Doveva allenare la Lazio, dopo la sparizione di Bielsa. Gli diedero la Nazionale, dopo che Capello l’aveva rifiutata, come contentino. Fu Lotito, il vero factotum allora in Federazione, a fare tutto. Tavecchio non sa manco com’è fatto un pallone».
Sul collo di Gattuso l’alito di Conte.
«Il Milan con Montella era spento, a cominciare da Calhanoglu. Rino Gattuso è amico mio. Quando lo scelsero al Milan lo chiamai: “Ricordati chi eri. Un muratore, non un architetto. Aiutavi i compagni. Adesso, da allenatore, vai nello spogliatoio e parla così: “Ragazzi, io sono Gattuso, sapete la mia storia da giocatore, può darsi che tecnicamente siamo inferiori agli altri, allora dobbiamo correre il doppio…”. Con queste parole ha cambiato il Milan».
Il carisma nell’allenatore.
«E’ tutto. Ci sono allenatori che parlano e i giocatori fanno pernacchie. Altri che si fanno ascoltare. Lippi, Capello e Allegri li metto su questo podio».
Nei novanta minuti?
«Il povero Mondonico era quello in panchina che vedeva il calcio meglio di tutti. Tu dai le indicazioni di massima, poi è il campo dopo dieci minuti che ti deve suggerire cosa fare”.
Pentito di qualcosa?
«Mi pento di non aver preso a manate qualcuno. Se penso che uno come Meani l’hanno fatto passare per magazziniere…Si devono vergognare tutti».
Pentito almeno di aver rubato Ferrara e Paulo Sousa alla Roma per portarli alla Juve.
«Quello è vero. C’era Sensi alla Roma. Gli dico: “Presidente, abbiamo un giocatore eccezionale a Lisbona”. E lui: “Ho un parente là, ci penso io”. Poi gli parlo di Ferrara. E lui: “Ho un mio avvocato a Napoli”. Così, passo alla Juventus e gli ho fottuto i giocatori. Sensi non aveva fiducia in nessuno, per questo era il più ricco ed è diventato il più povero».
Confessa: Iuliano su Ronaldo in quell’Inter-Juventus, rigore grosso come una casa.
«Probabilmente era rigore. Ma quell’Inter neanche doveva starci in serie A. Doveva essere retrocessa per lo scandalo del passaporto di Recoba».
Ci sarà una seconda Calciopoli ?
«La Juve sarà sempre odiata, ma non ci sarà una seconda Calciopoli. Non ci sono più Telecom, Tronchetti Provera e Montezemolo. E non c’è più Blatter. Che ringraziò pubblicamente Montezemolo di aver ritirato il ricorso al Tar contro la sentenza che retrocedeva la Juve».
Fonte: CdS