Gli 80 anni di Altafini, il centravanti più allegro di sempre: “CHE GOLAÇO”

Complice di Sivori, eroe di Wembley, scrittore e cantante

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Ci sono centravanti che dopo il gol fanno una smorfia e scivolano nell’abisso della solitudine: si sono liberati di un peso e a noi testimoni non resta che registrarne il sollievo. Bella la vita sua, ma anche no. Ce ne sono altri che esultano come tarantolati e sempre a favore di telecamera; la loro è una gioia posticcia, credibile come una borsa di Gucci in vendita sul lungomare di Cattolica. E poi ci sono quelli che tornano bambini, fanno festa, liberano buonumore e allegria, «come un’ape che distribuisce il miele volando», poetava Pablo Neruda. José Altafini ha sempre fatto parte di questa eletta schiera di goleador, sia quando giocava – 216 gol in A per la contabilità degli almanacchi, quarto di tutti i tempi con Meazza – sia quando si dedicava a commentare le partite degli altri, nella sua cantilena italo-brasiliana, pirotecnica e contagiosa in epoche in cui la narrazione calcistica si faceva in giacca e cravatta, molto formale, quasi severa. Il suo «Incredibile amici» a fronte di un gol o di una giocata particolarmente strabiliante ha fatto scuola e – non si sa quanto consapevolmente – ha dato la stura a seguaci distratti, che hanno confuso l’istante irripetibile che merita il punto esclamativo (!) con la somma di attimi, in un orgasmo di «pazzesco» destinati anche al più insulso dei passaggi sulla trequarti.

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Altafini José da Piracicaba – sentite come sono belli da pronunciare i nomi brasiliani – oggi ne fa ottanta e raccontarne qui le gesta – palla al piede per chi se lo ricorda o microfono in mano per altre generazioni – significa puntellare la sua figura in quello sconfinato album delle figurine che è la nostra memoria collettiva. Raccontano che negli spogliatoi degli anni ’60 – panche di legno, sudore maschio e olio canforato – Altafini usasse nascondersi dentro un armadietto completamente nudo, per poi all’arrivo dell’allenatore sbucare fuori e – taaaaac – rivelarsi in tutto il suo splendore. In fondo è una vita che José esce fuori dall’armadietto della banalità per provare a divertirsi.

DA MAZOLA A WEMBLEY. Arriva in Italia a vent’anni, con il soprannome di “Mazola”, con una zeta sola, perché nello spogliatoio del Palmeiras c’è una foto del Grande Torino e qualcuno dice: José somiglia a quello là, ha lo stesso cipiglio, gli stessi capelli rossicci. Quello là era Valentino Mazzola. Lo prende il Milan, club con cui vince trofei storici – sua la doppietta al Benfica nel 1963 nella prima Coppa dei Campioni vinta da un’italiana – ma ha anche un rapporto tormentato. Viani lo bacchetta, lo vorrebbe più gladiatore, Nereo Rocco se lo coccola e mette a tacere il collega: «Gipo, mona che no te si altro, Giosè l’è un gran zogador». Nel 1965 desta scandalo perché – anche qui un pioniere – si fa assistere nella trattativa da uno zio (Angelo Mascheroni, che di fatto gli fa da procuratore e tratta l’ingaggio) e quindi passa al Napoli, per 280 milioni di lire. Con Omar Sivori forma una coppia d’attacco che ancora oggi, ai reduci di quei tempi in bianco e nero, fa venire il coccolone. A dimostrazione delle molte vite che ha vissuto quando nel 1972 – con Dino Zoff – viene ceduto alla Juve, si prende la rivincita su quelli che gli danno del vecchio ormai sul viale del tramonto. Gioca a singhiozzo ma da panchinaro continua a segnare tanto, si cala nella veste del goleador-part time, tanto che ancora oggi si parla di gol alla Altafini, per dire del timbro da co.co.co. della squadra.

DUE NAZIONALI. Ha giocato (poco) con due nazionali. Otto presenze e quattro gol nel Brasile, due di questi al Mondiale del ’58 quando arrivò in Svezia da titolare ma si scansò, c’era l’onda della Storia a reclamare spazio, era un ragazzino di due anni più giovane, si chiamava Pelé. Sei sole presenze e cinque gol con l’Italia tra il 1961 e il 1962, quando pensammo che a salvarci sarebbero stati gli oriundi e allora uno zio a Treviso non si negava a nessuno. Ha avuto tanti soprannomi, “Mazola”, poi “Coniglio”, perché si diceva avesse paura dei difensori e tendesse a nascondersi (ma Gianni Brera lo trasformò in “Conileone” proprio per esaltarne la doppia faccia del carattere), infine “Core ’ngrato” – dal titolo di una canzone napoletana dedicata all’amore non corrisposto – per un gol segnato – da juventino – al Napoli, un gol che tolse lo scudetto (stagione 1974-75). Altafini era un ottimo contropiedista, un centravanti astuto, «bravo a leggere le situazioni» si direbbe oggi, che aveva fatto della scaltrezza la password per scardinare le difese avversarie.

CHE GOLAÇO. Nel suo giardino dei ciliegi, l’area di rigore avversaria, sapeva essere allo stesso tempo spettacolare ed efficace: gioiva per i suoi gol – anzi per ogni «golaçooooo» – come Adamo quando scoprì che nel Paradiso terrestre non era solo e insomma, volendo c’era da divertirsi. Ha smesso di inseguire un pallone una volta arpionati i quaranta, nel Canton Ticino, in forza al Chiasso: ha sempre vissuto di calcio, continua a farlo oggi che vive ad Alessandria, prestando la sua faccia sorridente a spot e sponsor vari. E’ stato anche uno dei primissimi campioni a scrivere manuali di calcio per i ragazzini. In uno di questi, “Come si gioca a calcio” del 1975, scriveva: «Secondo me il gioco del calcio è essenzialmente uno spettacolo e deve divertire non solo gli spettatori ma gli stessi giocatori che lo praticano». Lo sappiamo: le più grandi verità necessitano di poche e chiare parole. Uno spettacolo. Che deve divertire chi guarda e deve divertire chi gioca. Che altro è il calcio?

Fonte: CdS

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