O. Bianchi: “Vincere a Napoli ha un valore e un sapore diverso”

L'ex tecnico del Napoli parla della lotta scudetto

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O. Bianchi: “Vincere a Napoli ha un valore e un sapore diverso”

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Assai prima che la Storia cominciasse ad accomodarsi al suo fianco (dunque in panchina), Ottavio Bianchi, intervistato dal Corriere dello Sport, scelse una maschera, la indossò, eppur rimase se stesso: l’uomo che ha provveduto a rivoluzionare il calcio italiano, portando per la prima volta lo scudetto al di sotto del Garigliano, un gentleman divenuto nell’immaginario collettivo (?) un orso, si sedette ai bordi del campo su un pallone, osservò il panorama e ci dipinse dentro una Napoli tricolore. «E vincere qui, l’ho detto e lo ripeto, è altro, ha un valore e anche un sapore diverso. Vincere qui ha un senso quasi epico e ci sono emozioni che altrove, pur nel successo, non si provano».

Quando Ottavio Bianchi cominciò ad avviare il ribaltone, arricchendo quei favolosi anni ‘80 d’un capolavoro per l’eternità, il calcio era più o meno come questo, semmai era diverso il contorno, le vittorie valevano di meno ma le imprese pesavano alla stessa maniera e semmai la differenza era nei talenti: «Se ripenso ai migliori della mia epoca e tento di proiettarli in quest’era moderna, m’accorgo che restano loro i più bravi. Adesso mi sembra che abbondino i procuratori e che gli ingaggi si siano decuplicati, come le radio e le t.v.: però la centralità è il campo e quel pallone che rotola. Ma forse la qualità degli interpreti si è abbassata».

Quando il Sud rovesciò il potere calcistico costituito del Nord (unici «intrusi», fino a quel momento: Fiorentina, Bologna, Cagliari, Lazio e Roma), e alla cloche c’era Ottavio Bianchi, per sorvolare il caos metropolitano con i suoi ingorghi e gl’inevitabili pericoli fu necessario (anzi indispensabile) studiare la rotta ma anche la strategia contro le turbolenze, poi scendere, analizzare quel microcosmo, accomodarsi su uno scanno, immaginare che fosse un lettino e trasformarsi in uno psicologo. «Fare l’allenatore pure questo è, altrimenti sarebbe giusto e sacrosanto cambiare mestiere e andare a lavorare dove si timbra un cartellino. Di questo è ben consapevole Sarri, che dimostra di avere le idee chiare in materia, e chi pensa che dietro una battuta ci sia uno sprovveduto o un polemista fine a se stesso, non ci ha capito granché e non ha letto, né tantomeno studiato, i Pesaola, i Rocco, i Maestri di quei giorni. La gestione delle situazioni passa attraverso la capacità di ammorbidire le tensioni o di distrarre l’attenzione e un tecnico queste vicende le conosce e tenta di domarle secondo uno stile personale. Ora si parla di capacità dialettica, di comunicazione, di gestione mediatica: e perché prima cos’era?».
L’uomo che allenò Maradona (avete presente?) e gli si infilò dolcemente nella testa (avete presente?), scelse il profilo basso e la sguardo fieramente alto, perché ieri – come oggi – non c’erano mezze misure per fronteggiare quell’onda anomala d’entusiasmo sprigionato. «Capisco il tentativo di Sarri di isolare i giocatori, di sottrarre loro pressione, ma non è semplice: i fattori ambientali diventano virus, entrano nella carne dei calciatori. E’ complicato far finta di niente quando adesso io e lei siamo qui a raccontare di una squadra che gioca un calcio meraviglioso e io le dirò – come faccio da settembre – che questo è, potrebbe essere l’anno buono. E’ un’eco, lo si sente da mesi, che arriva ai ragazzi. Ma si può fare». E’ impossibile andare a leggere cosa sia scritto in quell’orizzonte torbido (bianconeroazzurro) profilato dai due punti in classifica, dalle nove partite che restano, faccia a faccia a Torino compreso: però quel gentiluomo – Ottavio Bianchi – che mentre il Napoli entrava nell’Olimpo, sfilava discretamente verso lo spogliatoio, lasciando il palcoscenico all’universo intero e a se stesso sottraendolo, pure trentuno anni fa strizzò l’occhio al destino, nel suo silenzioso incedere, ed afferrò la gloria. «Due punti sono niente, lo sa Sarri e anche Allegri, anche perché c’è lo scontro diretto. E’ chiaro che altre riflessioni vanno fatte: di là c’è una squadra, una città abituata a vincere e a convivere con questa adrenalina ma io penso che comunque sia possibile sentirsi alla pari, in questo rush finale. Alle proiezioni con le percentuali non partecipo, è un giochino che non mi attrae e non mi ha senso: chi avrebbe pensato che la Juventus avrebbe pareggiato a Ferrara? E quello, credetemi, è un rallentamento che pesa persino più dello stop del Napoli al San Paolo con la Roma. Poi ci sarà la Champions, che logora. Ed esistono le variabili degli squalificati, degli infortunati: vince chi resta se stesso, chi riesce ad evitare di strafare, chi non drammatizza una giornata storta e non si esalta dopo una partita scintillante».

 L’uomo che compiuto la prima impresa, spingendo Napoli nel delirio di massa, non ha segreti da svelare («non credo ne esistano, se non il buon senso»), né suggerimenti da dispensare («non sia mai, non m’appartiene»), né profezie da spargere ma un precedente da raccontare: 1986-1987, quando Napoli (calcisticamente) s’è fatta…«Non chiedetemi come finirà, non sono in grado di rispondere: oggi rispetto ad allora mi pare che la forbice si sia allargata, che le due grandi siano più grandi e che nelle vittorie si contino ormai soprattutto i gol di differenza». Forse un indizio, per rifare la Storia nel Terzo Millennio.

Tratto dal CdS

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