Demetrio Albertini: “Io credo che oggi il Napoli sia veramente attrezzato per poter vincere lo scudetto”
Albertini si “confessa” al CdS
Come ha cominciato a giocare al calcio Demetrio Albertini?
«All’oratorio. Nella mia famiglia mio padre ha sempre fatto il muratore e mia mamma la casalinga. È stato l’oratorio la mia scuola calcio.Non avendo allora le telecamere ho delle foto dove con il pallone camminavo e senza il pallone andavo a quattro zampe. Me le faceva vedere sempre mia mamma…».
E’ stata la sua iniziazione ?
«Non so, però così è nata, come in tutte le cose, la passione. Il bambino è talmente puro che è libero di prendere per sé la strada che vuole. Tanto è vero che mio figlio non fa il calciatore».
Collezionava figurine?
«Per noi, bambini di paese, l’album delle figurine era ed è un’istituzione. Il mio sogno era di finire nelle figurine Panini. Non era quello di diventare giocatore professionista, non di fare chissà che Coppa, ma di andare sulle figurine».
Per che squadra tifava da bambino?
«Io non ho mai tifato una squadra particolare, avevo un idolo che era Marco Tardelli e lo è stato dal Mondiale del 1982. Allora ho cominciato a pensare che mi sarebbe piaciuto fare il calciatore».
Entra direttamente al Milan?
«Seregno. Può essere interessante questa storia per capire come è cambiato il calcio. Io in oratorio ero uno dei più bravi: una volta non c’erano gli osservatori e i procuratori, c’erano gli amici degli amici degli amici dell’amico del massaggiatore del Como, del Monza o dell’Inter. “Vieni giù che sei bravo, ti porto a fare un provino”. Mio papà diceva sempre di no, ma in tutte le squadre della Brianza, dove nasco, c’era sempre qualcuno che voleva portarmi all’Inter, o al Milan. Invece mio papà diceva sempre no, diceva che dovevo studiare. Poi non poteva portarmi perché lavorava e lavorava tanto. Invece un giorno, quando avevo dieci anni, sono tornato da scuola e mi ha detto “Metti la tuta e andiamo a fare il provino al Seregno”. Il giorno dopo ho giocato con quelli più grandi. Poi mi vedono gli osservatori del Milan e io, a undici anni, sono rossonero».
Si ricorda la prima volta che in allenamento ha visto dei giocatori importanti? Che sensazione ha avuto?
«Ci allenavamo a Linate dietro l’aeroporto, in un campo dell’Aeronautica. La prima volta vidi Wilkins e Hateley. Wilkins giocava nel mio ruolo, era uno dei miei idoli,lo vidi che si allenava senza calze, cosa che mi sorprese. Poi ricordo che andavo a fare il raccattapalle e c’era Terraneo,il portiere, che eradi unpaese ad un chilometro da casa mia e quindi mi sentivo autorizzato di salutarlo. Nella partita in cuiHateley segnò di testa con l’Inter, quella famosa, c’è una foto mentre io sto uscendo dal campo vicino a lui. Avevodieci anni».
C’è un ricordo che lega i suoi genitori alla sua attività calcistica?
«Devo tutto ai miei genitori, a partire dall’educazione. Con grandi sacrifici mi hanno dato l’opportunità di seguire le mie passioni e realizzare i miei sogni. Per ben due volte hanno portato la borsa indietro al Milan, perché non studiavo. I miei dicevano “Vi restituiamo la borsa” e quelli della società allora si rivolgevano a me: “No, devi rimanere qui. Ma devi studiare, altrimenti i tuoi genitori non ti lasciano”. Grandi sacrifici,però il dovere era la scuola e il piacere era il calcio. Ma quando diventò un lavoroapplicarono al mio mestiere il loro sistema di valori. Ricordo che la domenica sera,dopo le partite, magari uscivo a bere qualcosa con i miei amici, tornavo all’una di notte e mia mamma diceva “Adesso chiamo il Milan perché non si può fare il professionista come lo fai tu”. Io cercavo di rispondere “Mamma, ma il lunedì è il mio giorno libero”».
Chi è stato l’allenatore più importante della sua vita?
«Lo sono stati tutti. Devo dire la verità. Sacchi mi ha fatto esordire e insegnato a fare il professionista, Capello mi ha dato l’opportunità di fare il titolare. Però ricordomio papà, quando andavo all’oratorio si piazzava lì e calciavamo, gareggiavamo a chi la tirava più lontano. Il mio primo allenatore è stato mio padre, perché mi portava a giocare. Era così, una volta».
Chi è il giocatore più forte con cui ha giocato?
«Van Basten , il più forte in assoluto. Aveva, insieme, eleganza e forza.Poi lui ha smesso a ventotto anni, veramente giovane. Quando ho fatto la mia partita d’addio,nel 2006, ho avuto otto palloni d’oro in campo. Pescando solo da due mie squadre: Milan e Barcellona».
Cosa pensa di questa campagna acquisti folle, con casi come Neymar o Dembelé…?
«Il mondo è cambiato, il calcio è cambiato, è un business enorme. Se si valuta esclusivamente una persona, un giocatore e il suo valore, in questo caso Neymar, la quotazione è non tanto amorale, quanto ingiustificata. Questo è un mondo di business, ci sono dei fatturati astronomici ma il valore sono o dovrebbero essere, alla fine, i calciatori.Ma ora ci troviamo a competere con dei nuovi ricchi, che non fanno parte della nostra cultura. Io dico una cosa: il mercato è una componente per poter vincere,ma io non so più se stiamo parlando di dimostrare chi è il più forte. C’è anche una voglia di rivalsa con il vecchio continente, da parte dei nuovi ricchi. Vedi la Cina, gli Emirati, il Qatar, queste nuove realtà. Io sono felice di aver guadagnato meno di ora, ma di aver giocato quando ho giocato».
Lei sul Var è sulla linea di Buffon?
«Sul Var io ho sempre detto che la difficoltà era la certezza. La prima cosa è la certezza della decisione. Su una cosa sono d’accordo con Buffon: il calcio è uno sport di contatto, quindi valutare il rigore o il non rigore da una televisione è sempre difficile. Io credo che sia un’innovazione giusta, ma ci vorrà un rodaggio costante, un po’ più lungo di quello che pensavamo».
Ma non le sembra ci sia il rischio che il calcio si trasformi in uno sport senza errori? L’ errore non è un elemento della vita?
«Assolutamente sì. Finché non impareremo a capire che si può sbagliare… Perché il problema italiano è che noi pensiamo sempre che dietro un errore ci sia la malafede. Tutto si misura attraverso la furbizia. Dall’altra parte sono più furbi di me, allora mi comporto così. Io ho giocato in Spagna che è la dimostrazione che si può vivere il calcio diversamente».
Mi racconta la sua esperienza spagnola?
«Io credo che in Spagna ci sia, rispetto all’Italia, meno divismo da parte dei calciatori. Noi ci allenavamo sempre a porte aperte, in Italia quando c’è un allenamento a porte aperte è una notizia da scrivere sui giornali. Quando tu vai alla partita quello è il momento della sfida,del risultato. Quando vai a vedere l’allenamento della tua squadra vai solo a tifare la tua squadra, a vedere i tuoi campioni preferiti, così i bambini imparano a tifare per i propri idoli».
Lei ricorda Italia-Spagna del ’94?
«Un gran caldo, con il cento per cento di umidità. Sul pullman c’era l’aria condizionata, lì la mettono a meno dieci. Eravamo tranquilli, pensavamo: oggi è coperto e quindi più fresco. Quando siamo scesi c’era il cento per cento di umidità. Ricordo una partita difficile, perché la Spagna è sempre stata forte, ha avuto grandi giocatori e la difficoltà nostra era enorme. Vincemmo perché avevamo un santo protettore, che era Roberto Baggio».
Che successe nella finale con il Brasile?
«Eravamo cotti. E poi come semprenoi pensavamo di aver fatto veramente il massimo. Nello sport quando abbassi un attimo la tensione e ti accontenti tuttodiventa difficile».
Come vede Italia-Spagna?
«La vedo difficile. Loro sono una squadra ormai consolidata anche se ha cambiato tanto e non hanno fatto bene neanche loro,negli ultimi tempi. Hanno smesso di giocare calciatori importanti,la storia di questa squadra. Loro però sono riusciti a lavorare bene con i settori giovanili dei loro club. Guardi quello che ha ottenuto la Nazionale spagnola, in relazione a quello che hanno ottenuto le squadre di club della Spagna. E la stessa cosa dobbiamo farla noi negli ultimi dieci anni. Se facciamo un paragone vediamo che il cammino della Spagna, sia la Nazionale che quella dei club , più o meno è uguale. Noi abbiamo fatto male gli ultimi due Mondiali. E, tra le squadre, solo la Juventus ha dato un segnale in Europa».
La sua risposta qual è? «La mia risposta è che noi non sappiamo fare sistema. Noi abbiamo ancora oggi due Leghe senza il presidente. Lega di serie A e Lega di serie B. Noi abbiamo un contenderci economico per i diritti televisivi che diventa merce di scambio per un contendersi politico. In altri Paesi le società si sono strutturateinaziende: hanno i migliori nel marketing,i migliori nello sport, i migliori nei media».
Le sembra ci sia una nuova generazione di giocatori italiani che sta crescendo? Perché in effetti sembra meglio questa Nazionale di quella degli Europei. «Io dico che c’è una nuova generazione che sta crescendo e bisogna aspettarli, perché noi siamo il Paese dove un giovane dopo un anno di serie A è un fenomeno, il secondo anno non riesce e allora diciamo che si è montato la testa. Non abbiamo mai la costanza di aspettare un ragazzo e la sua crescita. Io porto l’esempio di uno dei giocatori più forti degli ultimi anni che è Iniesta. Io andai a giocare al Barcellona e vedevo Iniesta allenarsi e non giocare, entrare ogni tanto. Guardai la carta d’identità,aveva diciannove anni. Ha fatto tre anni con la prima squadra però non gli hanno dato mai la responsabilità, era un talento e a vent’anni è diventato titolare con l’esperienza di aver fatto panchina e campo. Questo vuol dire far crescere un giovane. Io mi sono sempre reputato un ragazzo normale che ha fatto qualcosa di speciale e mai un ragazzo speciale che ha fatto qualcosa di normale. Ci sono alcuni giocatori che invece pensano di essere speciali loro e giocano tanto per giocare».
Chi pensa vincerà lo scudetto quest’anno? Chi le sembra si sia rafforzato di più?
«La squadra da battere è la Juventus. La Juventus sa vincere. E’ attrezzata sia come società che come squadra. Però che cosa è cambiato? Che se fino all’anno scorso dicevo che poteva perderlo solo la Juventus, lo scudetto. Quest’anno lo possono vincere anche altre. Io credo che oggi il Napoli sia veramente attrezzata per poterlo vincere perché ha tenuto giocatori importanti, la Roma sono curioso di vederla e poi continuo a sostenere che l’Inter è una delle squadre che già l’anno scorso era molto competitiva».
C’è un giovane giocatore che le piace particolarmente?
«Ce ne sono diversi. A me ha fatto una buona impressione Coulibaly del Pescara. Ha una storia bella: è arrivato come profugo e intravedo in lui un talento. Ma conta molto, per tutti i giovani, quanto le società e gli allenatori vogliono davvero investire nella crescita dei giovani».
Se lei dovesse dire ad un bambino che cosa è il calcio, cosa gli direbbe?
«Passione e condivisione. Ho visto tanti giocatori molto più bravi di me che, quando hanno perso la passione, si sono fermati.La condivisione, perché non c’è uno sport più equo e universale del calcio. Lo possono fare tutti. Quelli alti, quelli veloci, quelli lenti».
Si dice sempre: cosa ti ha insegnato il calcio? «Il rispetto degli avversari. No, prima mi ha insegnato il rispetto dei compagni con i quali ho un obiettivo comune. E per questo rispetto io mi alleno decentemente, mi sacrifico, aiuto il mio compagno quando è in difficoltà. Al calcio si gioca in squadra, non da soli. E forse questo vale anche nella vita».
Fonte: C dS