Vittoria, riscatto e sconfitta: cosa ci resta del 10 maggio ’87
Povertà, disoccupazione, lotte sociali e disagi post-terremoto: il 10 maggio 1987 tutto ciò viene oscurato dall’impresa di 11 leoni, pionieri indiretti di una rivalsa cittadina senza precedenti. Il Napoli infatti quel giorno vince il suo primo scudetto, dando alla gente e non solo ai tifosi l’opportunità di un riscatto dopo anni difficili. Quartieri ripuliti in un attimo, piazze e strade colorate da un entusiasmo galoppante diventano la prova di come il calcio abbia catalizzato cultura e desiderio di rinascere di questo popolo, un fenomeno sottoposto a continue riflessioni con l’obiettivo della trasmissione ai posteri. Si sfocia così nella sociologia e forse nasce da ciò l’idea del Dipartimento di Scienze Sociali dell’Università Federico II di dedicare al trentennale della vittoria un seminario, durante il quale poi la riflessione si allargherà verso lo squilibrio economico che regge il tutto.
Necessario, a giudicare dal titolo scelto, cercare l’analisi dei temi portanti e trattati: la memoria e l’eredità della portata rivoluzionaria dell’evento. Se la prima assurge a due valenze contrapposte quali intransitività, con annessi ostacoli al progresso, ed esemplarità, quindi confronto per progettare un presente migliore, la seconda ne prevede addirittura una terza, esattamente mediatrice delle altre. Questo tuttavia resta puro esercizio sociologico poiché la discussione si sviluppa a partire da una sovversione tra locale e globale realizzata dal Napoli. Una società che in quegli anni si espone, cambia e allarga i propri orizzonti, acquista visibilità e traina con sé l’Italia intera, ma si ferma sul più bello. Come ben illustrato dal professor Guido Panico, dall’80 in su il campionato italiano si livella verso l’alto e gli investimenti nel pallone non mancano, in proiezione Italia 90. Dall’industria alle strategie di marketing il passo è stato breve, con il calcio principale macchina del progresso. Gli sponsor ed i diritti televisivi contribuiscono a gonfiare i bilanci societari, trasformando però gli spettatori in audience. Ed infatti c’è la discesa in campo di Fininvest, decisa a battagliare con la Rai per il cosidetto monopolio, finché la Legge Mammì non afferma duopolio e derivati. Si organizzano manifestazione ad hoc per le televisioni, con scopi economici ma anche per rendere sempre più appetibile il prodotto-calcio. Il Mundialito, apparentemente senza senso, voleva mettere in mostra i nuovi campioni stranieri, sbarcati in Italia grazie all’approvazione dei due extracomunitari per squadra. Il Napoli non si innesca in questo processo, anche se Ferlaino coniuga competenze tecniche e politiche all’interno dell’organigramma societario. La dedizione di Antonio Juliano e soci collabora con un c.d.a composto da industriali, politici ed intermediari, quest’ultimi a stretto contatto con quelle banche che a conti fatti finanzieranno Diego Armando Maradona. Nonostante un personale qualificato dunque, ne deriva un modello creativo ma sregolato, proprio come la sua punta di diamante in campo. Il bilancio è costantemente in passivo: non a caso Ferlaino, tra tasse e premi ai calciatori, ha parlato dello scudetto come un bagno di sangue. Ce lo spiega brillantemente il prof. De Ianni, premettendo che gli stipendi costavano al presidente il doppio degli incassi al botteghino, vero introito all’epoca. La passione ha spinto Ferlaino a sedersi al tavolo e giocare una partita con Berlusconi e Agnelli persa in partenza, ma vinta a suon di investimenti per nulla lungimiranti. Il colpo di grazia fu la minusvalenza di Maradona, squalificato per doping nel ’91 e deprezzato fino allo zero. Gli assi nella manica giocati sono stati numerosi, ricapitalizzare il Napoli tramite i prestiti bancari della G.I.S, società in seno a Ferlaino con un patrimonio non all’altezza di quella situazione, ne è stato l’emblema. La bolla scoppia con l’ascesa di Bassolino sulla poltrona principale del Comune, quando i suoi bracci destri chiedono al presidente il saldo. Siamo nel ’94 e debiti, tasse non pagate portano ai closing con Corbelli e Naldi fino al fallimento.
Vittoria sportiva, sconfitta economica: lo pensano in molti, probabilmente tra questi De Laurentiis e la sua gestione lineare quanto moderna. Oggi la Ssc Napoli è un modello all’avanguardia, sano e che si auto-finanzia: rinnegata così l’eredità di un’impresa tanto agognata, a ragione e/o torto sia chiaro. Un passato che non ritorna, quasi inesistenti punti in comune con la tradizione, come sottolineano infine gli interventi di Francesco De Luca, de il Mattino, e Massimiliano Gallo, direttore de Il Napolista. Il Napoli bello e razionale di Sarri perderebbe senza segnare contro la mentalità vincente portata nell’84 da Maradona. La diligenza di Bianchi, l’istinto di Garella, la rinascita di Giordano e la paura infusa all’avversario di Bagni, ancor prima che il loro estro ed il loro talento: sapevano quando attaccare, quando difendere, quando pareggiare. Intorno a loro ragionieri come Ciccio Romano e De Napoli, gregari alla Carnevale e figli del Vesuvio quali Volpecina e Caffarelli. Un mix perfetto che oggi manca, nonostante le soddisfazioni che Higuain, Insigne e Mertens hanno regalato e stanno regalando. Tutto retto e favorito da blocchi di potere affaristici, vero, che al contrario 30 anni dopo sono un lontano fantasma. Pochi, pochissimi, però sono i supporters che tifano il bilancio, qualcuno in più sogna un nuovo miracolo, cavalcando quel sentimento nobile che chiamiamo nostalgia.
A cura di Mario De Martino