Il Mattino – Ruud Krol: «Napoli dai fiducia a Sarri come fece l’Ajax con Michels”
Il libero del Napoli: "Gli azzurri hanno tutto per rompere il dominio Juve"
«Come si dice qui? Buona fine e buon inizio».
Passeggia per Chiaia e l’ex capellone che ha imparato a giocare sui marciapiedi di Amsterdam non passa inosservato. I ricordi non sono sbiaditi, la memoria torna rapidamente al 1980 quando Napoli aveva incoronato re un olandese arrivato in cima al mondo e che aveva deciso di finire la carriera in azzurro. Ruud Krol cammina con l’aria di chi finalmente torna a casa. Ed è come se da quella casa fosse andato via da poco tempo. E non da 32 anni. Ecco quanto dichiarato in un’intervista al “Mattino”, «Volevo regalarmi di nuovo Napoli: sono tornato poche volte e per poche ore. Ho trascorso qui il Natale, vedrò i fuochi di Capodanno e poi andrò via. C’è sempre quella barca nel golfo in cui vengono fatti esplodere i botti?». Era sontuoso quando sembrava un giovane capitano Achab che svettava imperioso sulla difesa del Napoli. E quando i suoi sguardi spegnevano ogni audacia degli avversari. Lui, con la maglia numero 5 fuori dai pantaloncini, dirigeva, ammoniva, approvava.
Krol, che Napoli ha trovato? «Molto diversa in tante cose, tranne in una: il traffico. Non si camminava allora e non si cammina adesso. Però io ho sempre amato questa città, mi è sempre stata dentro l’anima».
Come i suoi tifosi? «Ero appena arrivato dal Canada e grazie al mio ingaggio il Napoli aveva fatto il boom degli abbonamenti in poche ore. Io ero felice, ero pronto a giocare la prima partita con la Pistoiese in casa. La gente mi aveva soltanto visto in un allenamento al San Paolo: il pomeriggio entrai in un negozio di scarpe e per uscire dovettero chiamare i carabinieri. Era straordinario».
Era, quello, il Napoli che sfiorò lo scudetto. «Io ricordo il terremoto: la prima scossa non l’ho sentita perché eravamo di rientro da Bologna, ma la seconda sì e fu terribile vedere tutti quei napoletani disperati e tutta quella sofferenza. Noi regalammo delle emozioni in un periodo terribile. Ricordo che giocammo di mercoledì con l’Ascoli perché lo stadio era stato a lungo inagibile. Io chiedevo a Luciano (Castellini, ndr) quanti tifosi sarebbero venuti… mai avrei pensato di giocare davanti a 80 mila spettatori una gara di mercoledì».
Che ricordi ha di quei quattro anni napoletani? «Non so se potevamo vincere quel campionato, ma l’autogol di Ferrario con il Perugia, resta uno dei peggiori ricordi della mia carriera. Una delusione enorme».
Come quella di Monaco di Baviera? «Avevamo sorpreso il mondo con quella Olanda. Avevamo mostrato che in 11 si va in avanti e in 11 si torna indietro. Sembrava una trasgressione, sembravamo dei rivoluzionari. Ma adesso ancora tutti si ricordano del calcio di Michels e non di quello della Germania che vinse il mondiale».
Quattro anni dopo fu anche peggio, in Argentina? «L’amarezza, quando si perde una finale, è sempre uguale. Lì vivemmo sulla nostra pelle il clima politico argentino, avvertimmo fin dal primo giorno che il calcio era importante ma c’era altro di più importante. Alla fine decidemmo di non stringere la mano ai dittatori di quel Paese… L’anno dopo con il Resto del Mondo tornai lì e mi presi una piccola rivincita. C’era Bearzot sulla nostra panchina, mi sarebbe piaciuto farmi allenare da lui».
Beh, Michels è stato un vero maestro? «Quell’Ajax è cresciuto giorno dopo giorno. A 15 anni ci portavano a giocare per strada, sul cemento: quando ti scontri con un avversario e cadi, lì ti fai male sul serio, ti esce sangue. E allora capisci che devi essere rapido, sveglio, per evitare impatto e fare la cosa giusta con il pallone. Una grande generazione nata e cresciuta a due passi dallo stadio De Meer: Neeskens, Haan, Rep e poi soprattutto lui, Cruijff».
Nessuno come lui, neppure Maradona? «Io non ho dubbi: è stato il più grande. E anche come allenatore, il Barcellona è nato con lui, con le sue idee, con la sua filosofia, con il suo genio. Noi eravamo dei giocatori di livello alto che giocavano con una stella mondiale».
Questo Napoli la diverte? «Molto, moltissimo. Sarri ha un gioco molto spregiudicato, quando la squadra ha il possesso della palla non c’è nessuno in Italia che fa le cose per bene come le fa il Napoli. Il punto è quando la palla ce l’hanno gli avversari: lì gli azzurri diventano una squadra normale».
Anche l’Ajax e l’Olanda erano così spregiudicati. «Non è vero. Noi eravamo solidissimi, le nostre difese erano una sorta di Fort Knox, inespugnabile. Segnavamo ma farci gol non era semplice. Anzi».
Tre coppe dei campioni consecutive, sei campionati olandesi in nove anni: come si fa ad avere sempre fame? «È la mentalità vincente che ti dà il club. È l’ambiente che fa la differenza, che ti fa capire che quello che conta è il prossimo trofeo non quello che hai già vinto. E poi conta l’allenatore. A Michels fu data fiducia. il primo anno stavamo quasi per retrocedere».
Quindi, cosa deve fare il Napoli per rompere il dominio della Juventus? «Bisogna credere nel progetto, sistemare un mattone alla volta. Senza fretta. Sarri ha bisogno di almeno un altro paio di anni per poter ottimizzare il lavoro che ha fatto fino ad adesso. In Italia non è semplice lavorare sul progetto: tutti pensano al risultato e a vincere subito».
Cosa le piace di Sarri? «Si vede che è uno che lavora molto. Ci vuole costanza nelle cose. Noi con l’Ajax vincevamo la domenica e il martedì eravamo sul campo di allenamento con Michels che ci faceva ripetere sempre e ancora le stesse cose. Come se fossimo degli impiegati. Dovevamo tutti avere confidenza con la palla: in quegli anni per noi le distrazioni erano tante, ma una volta in campo la disciplina doveva avere il sopravvento».
E questo Napoli? «Corre tanto, ha molti giocatori eclettici, ha un gioco offensivo dove spesso gli avversari non hanno riferimenti e dove c’è Mertens che è davvero un giocatore straordinario. A me piacciono le squadre che cominciano a difendere con gli attaccanti. E il Napoli lo fa anche se spesso non lo fa bene».
A chi deve dire grazie? «A Michels e Ivic, i migliori allenatori che ho avuto. A Wilkes uno straordinario olandese che è stato mio idolo da ragazzino e poi al mio papà Kuki, che ha fatto la resistenza ed è stato il mio simbolo».
Fonte: Il Mattino