Ferlaino: “Higuain? Si doveva blindare dopo Udine”
«Alle partite negli stadi dedicati a Giorgio Ascarelli e Arturo Collana andavo con mio padre. La prima volta da presidente fu contro il Milan: pagai il biglietto per entrare al San Paolo».
Corrado Ferlaino, l’ingegnere dei due scudetti e dell’acquisto di Maradona, è stato invitato due giorni fa da Aurelio De Laurentiis alla festa di domani sera a Fuorigrotta per i 90 anni del club.
«Sono all’estero, non riuscirei a rientrare. Per parlare dei 90 anni del Napoli non basterebbe un libro, lei quanto spazio ha?».
Dipende da quanto ha dire. «Partirei da un parallelo tra la storia del Napoli e la storia economica del calcio. C’è stata una prima fase, rappresentata dai mecenati, imprenditori che investivano in una squadra. A Napoli il primo fu Ascarelli, che arrivò a costruire uno stadio per gli azzurri. A proposito, spesso mi sono chiesto perché quell’impianto non fosse più nelle disponibilità immobiliari del club. Poi c’è stato Lauro, presidente-padrone di forte personalità. Personaggi grandi, Ascarelli e Lauro, però al nord c’erano ancor più mecenati. Poi nel calcio sono entrati i grandi gruppi industriali, tutti al nord, attirati da questo mondo più per i vantaggi fiscali che per la passione. La forza economica del mio Napoli erano gli incassi allo stadio, quelli che oggi incidono non oltre il 5 per cento. Ma incassavamo 25 miliardi di lire e ne spendevamo 35 soltanto in stipendi per i calciatori. Capirete quanto sia stato difficile confrontarsi con le potenze del nord e batterle».
Due scudetti in 90 anni: pochi? «Se partiamo da questo ragionamento, non sono stati pochi. Fare il salto di qualità fu molto complicato e non soltanto per gli aspetti economici. Se un arbitro sbagliava ai danni del Napoli, non accadeva nulla; se il torto riguardava Juve, Milan e Inter, un arbitro chiudeva la carriera. Serviva una speciale cura nei rapporti con il Palazzo che ho sempre avuto. Se siamo arrivati a vincere i due scudetti dobbiamo ringraziare San Maradona, anche se prima di lui tre volte eravamo andati vicini al titolo: ricordo ancora quelle partite contro l’Inter e l’arbitro Gonella a San Siro, la Juve a Torino e il Perugia al San Paolo». Maradona era il più bravo al mondo, perciò il Napoli vinse. «Prima che arrivasse Diego, alla vigilia di una partita difficile ci dicevamo preoccupati: Vuoi vedere che la perdiamo?. Arrivato lui, pronosticavamo fiduciosi: Vuoi vedere che la vinciamo?. Maradona riuscì a imprimere un cambio di mentalità e a dare certezze ai compagni, alla società, all’ambiente».
Lui non avrebbe fatto come Higuain: mai si sarebbe trasferito alla Juve. «Voleva andare al Marsiglia, era già d’accordo con Tapie. Non perché fosse attirato dai soldi, piuttosto gli piaceva l’idea di cambiare squadra, campionato, Paese. Io riuscii a bloccarlo perché erano altri tempi: i giocatori erano realmente vincolati dai contratti, restavano quasi a vita in un club se il presidente non voleva cederli. Ma un fatto è certo: Maradona non sarebbe mai andato alla Juve, amava e ama ancora profondamente Napoli e il Napoli».
Higuain, invece... «Il calcio ora ha differenti valori e aspetti economici: pesano molto gli introiti per i diritti televisivi. È una differenza che fa male a una società alla lunga perché un calciatore, dopo una buona stagione, si sente legittimato a chiedere di più. È una spirale dalla quale è difficile uscire perché i calciatori simbolo, le bandiere come Luis Vinicio e Antonio Juliano, non esistono più».
Lei considera lo juventino Gonzalo un traditore? «C’era una clausola nel suo contratto, inserita per un motivo preciso: se un giocatore fa grandi cose e raggiunge sul mercato quel prezzo, lui se ne va strappando un contratto più vantaggioso e la società incassa una grossa somma. La clausola rappresenta una garanzia per il presidente, perché nessuno se la prenderà con lui, e un programma utile per il club, perché i tanti soldi fanno molto comodo. Sugli aspetti morali, chiamiamoli così, dico che alla gente che ama il calcio per il calcio questo sembra altro: un gioco diverso».
Cosa è stato sbagliato nel rapporto con Higuain? «Non mi permetto di esprimere giudizi, però dopo Udine e la squalifica per tre giornate, quando il giocatore mostrò attaccamento alla maglia, gli avrei aumentato lo stipendio. Era il momento giusto».
La Juve ha dato una prova di forza, anzi di arroganza sul mercato: prima del Pipita, aveva tolto Pjanic alla Roma. «Si è rafforzata e ha danneggiato le rivali. È un nuovo calcio, non so se sia più sport e non so se lo comprendano i tifosi, in particolare i napoletani che considerano il Napoli la punta di diamante dell’affetto che provano nei confronti di questa città in cui il centravanti è più noto del sindaco. Questa passione è mortificata da una logica che vede vincente chi paga di più».
Bisogna prenderne atto e arrendersi? «Nello scorso campionato ho visto i calciatori e i tifosi cantare quel brano che non mi piace tanto perché per me l’inno del Napoli resterà sempre O surdato nnamurato: la squadra condivideva un sentimento. Ecco, questa è una forza. E un calciatore come Hamsik, per il suo affetto, dovrebbe essere amato di più. Certo, perdere un attaccante che segna 36 gol in un campionato è un guaio: tutto dipende dalla reazione della società, dagli acquisti che verranno fatti, dalla linea che si deciderà di seguire».
In che senso? «Si può andare avanti senza Higuain perché ci sono soldi e possibilità per farlo. Due le strade. La prima è affidare un gruppo di giovani a un ottimo allenatore come Sarri. La seconda è prendere campioni già affermati a livello internazionale. Credo che nello scorso gennaio, quando era al primo posto, il Napoli avrebbe potuto giocarsela fino in fondo per lo scudetto se fossero arrivati i rinforzi richiesti dal tecnico: lo dico, come sempre, in punta di piedi».
Parere da tifoso: il Napoli può vincere il terzo scudetto? «Parlo da tifoso, certo, perché la mia storia da dirigente è finita molto tempo fa e anche se De Laurentiis mi regalasse la presidenza non accetterei perché sono uscito molto provato da quella esperienza. Io non penso allo scudetto perché il campionato ha un’importanza relativa: ciò che davvero conta è essere stabilmente tra le prime 5-6 d’Europa e tentare di vincere la Champions League. Ecco, è questo il mio sogno».
Non si spinge un po’ troppo avanti il tifoso Ferlaino? «È un ragionamento logico, invece. La Juve ha vinto molto in Italia e adesso aspira alla Champions. Dovrebbe provarci anche il Napoli, soprattutto per quanto si guadagna attraverso la presenza stabile nella massima competizione internazionale. E poi in campionato vince il più forte mentre in Champions vince il più fortunato perché tra andata e ritorno il risultato può essere una lotteria. Noi arrivammo al successo in Coppa Uefa, che era difficile e prestigiosa perché in Coppa dei Campioni giocava una sola squadra, quella che vinceva il campionato».
Lei ha avuto tre figli, due scudetti e la Coppa Uefa: qual è stato il più bello? «Bellissimi e differenti. Il primo scudetto il successo di tutti. Il secondo, vinto tre anni dopo, rappresentò la vittoria della società, che seppe piegare un avversario forte anche mediaticamente: il Milan aveva alle spalle le reti Fininvest, provò ad esercitare una forte pressione dopo la storia della moneta che colpì Alemao a Bergamo ma in Rai c’erano nostri illustri sostenitori, a cominciare dal direttore generale Agnes. E gli arbitri, poi: Lanese io l’avevo soprannominato Milanese… La Coppa Uefa, infine. Ho detto che serve fortuna in Europa e quell’anno ne avemmo nei quarti: battuti dalla Juve per 2-0 a Torino, ribaltammo la situazione a Napoli vincendo per 3-0 al penultimo minuto del secondo tempo supplementare. Gol di Renica, ricorda?».
Una delle grandi emozioni di questi novant’anni fu quell’esplosione di felicità degli 80mila al San Paolo. «Renica, ricorda?», chiede Ferlaino con un singhiozzo.
Tratto da Il Mattino