Boniek al CdS: “Maradona era di un altro pianeta. Il difensore più forte? Un napoletano”
Il Corriere dello Sport ha intervistato l’ex calciatore della Juventus e della Roma, Zibì Boniek. Boniek, oltre a parlare della sua esperienza bianconera e dalla Nazionale polacca, ha detto qualcosa anche su due ex calciatori del Napoli ovvero Diego Armando Maradona e Ciro Ferrara.
Volava come pochi, Boniek. Detto Zibì a causa del nome da codice fiscale, almeno per noi. E’ stato juventino e romanista, con la stessa intensità. Vive a Roma e però sta molto in Polonia dove presiede la federazione gioco calcio. Chi ama il più bel gioco del mondo ha nella memoria le sue folate, i suoi dribbling, i suoi tiri secchi. In queste interviste abbiamo conosciuto il modo in cui dei ragazzi italiani, di varie generazioni, hanno imparato a giocare al calcio. E un bambino polacco? «Anche io, come i giocatori italiani, ho iniziato a giocare in strada. E’ lì che si formano, in tutto il mondo, i buoni giocatori e forse anche le buone persone. Noi in Polonia in strada dimostravamo subito quello che sapevamo fare meglio. Chi correva, chi picchiava, chi calciava con destrezza. E ognuno veniva subito indirizzato dove il talento lo portava. In strada vige, da sempre, la legge del più forte. Ma con una eccezione: il proprietario del pallone. Io ero piccolo, gracile ma avevo una smagliante sfera di cuoio. L’avevo perché mio padre giocava in serie A e anche questo accendeva su di me una luce particolare».
Com’era vivere nella Polonia di allora? «Non c’erano ricchi, eravamo tutti più o meno poveri allo stesso modo. Si stava sicuri, si andava a scuola e ovunque da soli. Lo Stato pensava a tutto, anche troppo. Finiva col pensare anche per conto tuo. In Polonia il novanta per cento della popolazione non vedeva l’ora che il regime finisse. Poi sono iniziate le differenze sociali e non è stato facile. Trovare l’equilibrio tra libertà e giustizia non è mai facile».
Quando cominciò a giocare sul serio? «Avevo undici anni, ero bravo. Giocavo a centrocampo ma avevo già spiccate doti offensive. Ogni tanto mi schieravano anche come difensore centrale. Andai in una società del mio paese e lì trovai un allenatore che mi faceva piangere. Mi ripeteva sempre che ero piccolo, che dovevo aspettare, che dovevo crescere. E, a quel punto, non valeva che io fossi proprietario del pallone. Aspettai e a diciassette anni, quando giocavo in serie B, mi vide un osservatore del Widzew Lodz. Mi presero e andai a trecento chilometri di distanza. A mia madre, che non voleva, promisi che mi sarei diplomato e laureato. Lo feci. All’Accademia dello sport discussi, proprio prima dei mondiali del 1982, una tesi, ma sul basket, non sul calcio. Sarebbe stato troppo facile».
Lei partecipò, giovanissimo, ai mondiali in Argentina. Come li ricorda? «Mi ricordo che ero incavolato fin dal primo giorno. Sempre per lo stesso motivo, volevo giocare. Non piangevo più, ma mi dava fastidio. Ero stato eletto giocatore dell’anno in Polonia e restavo in panchina. La verità è che quella squadra era formata dai giocatori mitici del 1974 e da noi giovani che spingevamo. L’allenatore non mi vedeva di buon occhio. Prima della partita con il Messico, mi disse “Guarda, io ricevo molte pressioni per farti giocare. Dicono che sbaglio a tenerti fuori ma io penso di avere ragione. Vai in campo e vediamo chi è nel giusto”. Così fu. Scesi in campo e segnai due gol. Da allora ho sempre giocato. Ho un ricordo particolare di quel mondiale in Argentina. Noi, nel girone dei quarti, perdemmo due a zero con l’Argentina. Sbagliammo un rigore, sinceramente, non meritavamo la sconfitta. Nello spogliatoio, alla fine, venne il dittatore Videla che, allora, per noi era il presidente di quel paese. Voleva farci i complimenti e vide che ero seduto e in lacrime. Chiese all’allenatore “Perché quel ragazzo piange?”. Che domanda era? Non piangevo certo per amore, su quella panca. Poi mi sarei anche arrabbiato, per la strana vittoria dell’Argentina per sei a zero sul Perù. Una partita a dir poco chiacchierata».
A proposito di partite “strane”, ha mai avuto racconti, da parte dei titolari del 1974, sulla altrettanto strana partita con l’Italia che decise l’eliminazione degli azzurri? «Io sono arrivato in nazionale nel 1976. Allora si dicevano tante cose su quel mondiale in Germania. Ma io sono sempre stato convinto che quello che ci si confida nello spogliatoio debba restare lì. Specie se, ormai , riguarda persone che non ci sono più e non possono difendersi. Comunque sì, la mia sensazione è che qualcosa successe».
Ora arriviamo al mondiale di Spagna. In cui noi eliminammo la Polonia in semifinale. Ma lei non era in campo, perché squalificato. «Ho ricordi bellissimi. Anche se per me furono giorni duri, avevo appena firmato il contratto con la Juve e in Polonia pensavano che avrei tirato indietro la gamba. Ma noi facemmo un mondiale bellissimo. Vincemmo con il Perù, nel girone, per cinque a uno e io segnai un gol. Poi ne feci tre, tutti io, con il Belgio. Nell’ultima partita prima della semifinale in uno scontro davvero fortuito con un giocatore russo, fummo ingiustamente ammoniti ambedue. E io fui costretto a saltare la partita con l’Italia. Tutti dicono che non sarebbe cambiato nulla, tanto forti erano gli azzurri. Ma proviamo a mettere Rossi in tribuna e Boniek in campo e vediamo come finisce».
Poi andò alla Juventus, come si trovò? «Fantasticamente bene. Arrivai nello spogliatoio e trovai dei campioni, ma sorridenti e accoglienti. Capii che dovevo vestirmi meglio, visto il loro look. Ero arrivato solo con jeans e maglietta e allora andai da uno stilista alla moda e mi comprai vestiti che a me sembravano appropriati. Ma solo a me, tanto erano sgargianti. Quando entrai nello spogliatoio vestito così gli altri applaudirono. Temo non per approvazione. Al primo allenamento chiesi a Zoff se dovevo dargli del tu o del lei. Lui mi guardò e sorrise. Era una squadra fantastica. Nove italiani e due stranieri. E, se posso dirlo, due stranieri di qualità. A me sembra questa la miscela giusta. Io andavo d’accordo con tutti. Nello spogliatoio c’era chi non si parlava da un anno ma io ero amico di tutti. Trapattoni era un allenatore eccezionale, il migliore che ho avuto in tutta la mia carriera, insieme a Piechniczek».
Cosa pensa della vicenda Platini? Proprio in questi giorni sono cadute le accuse più gravi contro di lui. «Io penso che sia stata una cosa politica. Guardi, se Michel avesse avuto davvero scheletri nell’armadio non si sarebbe candidato. Io so che Michel è una persona per bene e sono dalla sua parte. Vorrei che fosse lui a consegnare la coppa all’Europeo in Francia, nel suo paese».
Cosa le viene in mente, se le ricordo la finale persa di Coppa dei Campioni ad Atene contro l’Amburgo? «Mi viene da dire solo porca miseria. Ricordo che nello spogliatoio, dopo venti minuti di silenzio assoluto, ci promettemmo che dovevamo di lì in avanti vincere tutto, e in particolare la Coppa dei campioni. E così fu. Io arrivai ad Atene dalla nazionale polacca tre giorni prima della partita, trovai i ragazzi concentrati. Ma poi in campo eravamo sotto tono. Noi eravamo più forti ma loro erano forse meno stressati. Mi dispiace molto, specie per i sessantamila tifosi in lacrime allo stadio. Non li dimentico».
Secondo lei, se un paragone è possibile, era più forte quella Juventus o il Barcellona di questi anni? «Per me quella Juventus. In tre anni facemmo tre finali. Ma certo i paragoni sono impossibili. Prenda Maradona e Messi: uno è stato marcato sempre a uomo, l’altro sempre a zona. Se sei marcato a uomo tocchi meno palloni e ti menano, ma tanto. Lei pensi se Maradona giocasse oggi, con tutti gli spazi che ha Messi. Pensi che durante una partita Juventus-Napoli nello spogliatoio ci dicemmo che l’unico modo per fermarlo era menargli di brutto. Ma dopo dieci minuti in campo ci guardammo e ci dicemmo che no, era troppo bello vederlo giocare».
Qual è stato il gol più bello con la Juventus? «Non saprei dirle. Ma ho un dato statistico che le racconta cosa siamo stati, l’uno per l’altra, la Juve ed io. Ho giocato tre anni e ho disputato quattro finali in tutto, compresa la Supercoppa. Ne ho vinte tre. Abbiamo fatto cinque gol e di quelli io ne ho messi a segno tre. Non credo ci siano altri score così».
Le dico io quale fu per me il suo più bello. Quello con l’Aston Villa, in casa loro. «E’ vero. Ha ragione. Meraviglioso lancio di Michel e fiondata mia. Da manuale. Ma io ricordo con affetto anche quelli contro il Liverpool, sul campo innevato e con il pallone rosso. Era il giorno in cui nacque mio figlio. Gran momento, per me».
Com’ era il suo rapporto con Agnelli? Non le chiedo per l’ennesima volta del “bello di notte” che l’avvocato disse, per presentarla, a Kissinger. Definizione nata, forse, proprio in quella partita con il Liverpool… «Era un uomo affascinante e divertente. Se ti citava voleva dire che ti stimava. Altrimenti ti ignorava. Ricordo che il lunedì mattina alle sei chiamava Michel o me e ci chiedeva giudizi su giocatori stranieri. “Com’è Robson?” Il martedì trovavamo queste valutazioni nelle interviste che rilasciava ai giornali. Si fidava evidentemente di noi».
Mi dica anche il suo ricordo della notte terribile dell’Heysel. “Ho un ricordo angoscioso. Noi non volevamo giocare. Fummo costretti, per ragioni di ordine pubblico. Noi sapevamo che ci avrebbero dato addosso comunque: se avessimo giocato sul serio, se non lo avessimo fatto, se avessimo esultato per un gol e se non lo avessimo fatto. Noi sapevamo che c’erano dei morti ma non la proporzione. Io l’appresi all’alba a Bari. La Juve mi aveva messo a disposizione un aereo della Fiat per andare a Tirana, dovevo giocare con la Polonia. Partii in piena notte da Bruxelles ma non ci fecero atterrare in Albania perché l’aeroporto era chiuso. Facemmo così scalo a Bari e, mentre prendevo un caffè con il pilota, scoprii che i morti erano stati trentanove. Fui distrutto. Pensi che io non volli una lira per quella partita, diedi tutti i soldi alla fondazione che si occupava delle famiglie delle vittime. Mi sembrava il minimo».
Quella fu la sua ultima partita in bianconero. Perché andò alla Roma? «E’ una storia che racconta come erano quei tempi, almeno in Polonia. Io, prima di passare alla Juventus avevo firmato con Dino Viola. Ma allora era il Ministro dello sport a decidere se un giocatore poteva andare via dalla Polonia. La Roma poteva pagare l’acquisto in tre rate e il ministro non era d’accordo. La Juve si offrì di pagar subito. E fui bianconero. A Viola dissi che se fossi andato bene tre anni dopo, il tempo del contratto, sarei andato in giallorosso. Dopo due anni e mezzo mi cercò. Lo vidi a Firenze. Mi feci prestare la Ferrari da Michel. Per fare prima ma anche perché pensavo che arrivando in quel modo avrei avuto un contratto migliore… Aggiungo che alla Juventus si stava concludendo un ciclo».
Com’era quella Roma? «Le declino il centrocampo: Ancelotti, Cerezo, Conti, Boniek. Non male. In panchina premevano Giannini e Desideri. Davanti c’erano Pruzzo e Graziani. E voglio dirle che, per me, Pruzzo è stato l’attaccante più forte con cui abbia mai giocato. Sembrava avere un timing per la scelta dei tempi, non era alto ma di testa la prendeva sempre lui. Potevamo vincere lo scudetto, avevamo ripreso la Juventus dopo una fantastica rincorsa. Ma poi arrivò la partita con il Lecce…».
Altra sconfitta inspiegabile, come quella in bianconero con l’Amburgo. «Si dice che questo è il bello del calcio. Sarà… Io ho ancora i bruciori di stomaco se ripenso a quel giorno all’Olimpico. Vincevamo uno a zero e, se l’arbitro non ci avesse annullato un gol per un fuorigioco inesistente, saremmo andati sul due a zero. Poi non so cosa successe ma bum bum bum, ci fecero tre gol e ci stesero. Se si rigiocasse mille volte quella partita non finirebbe così…».
Come vede la Juve dei cinque scudetti? «Un’impresa straordinaria. Tutti meritati. Squadra fortissima, grande allenatore e, soprattutto, società solida, capace di far rispettare le regole. Cosa che alla Roma, l’unica squadra che potrebbe competere, è sempre stato e temo sarà sempre molto difficile».
Chi è il difensore più forte che ha incontrato da avversario? «Ciro Ferrara. Sempre concentrato, ti si appiccicava come il Vinavil. E poi Vierchowod».
E il giocatore più forte con cui abbia giocato? «Uno è fuori concorso, Maradona. Gli altri, ai miei tempi, erano campioni eccezionali. Platini, Falcao, Rummenigge e Zico che quando accennava le finte faceva saltare i legamenti ai difensori. Allora il campionato italiano era il più richiesto del mondo, da parte dei campioni. Per tutti noi giocare in Italia era un sogno. Allora. Oggi è diverso. Vedo gli stadi, per larga parte sono gli stessi di quando c’ero io. Ormai la differenza tra ricchi e poveri, nel calcio, si accentua sempre di più. Se uno vede Benfica e Bayern sa subito chi è il ricco e chi è il povero. Poi, per fortuna arriva la favola meravigliosa del Leicester e il calcio ritrova tutta la sua magia».
La sua opinione su Totti? «Totti è un fenomeno. Per prima ragione perché gioca nella stessa squadra da sempre, segno di amore e attaccamento alla maglia. Ma anche per un altro motivo. Lui è, mi passi il termine, il re di Roma. Ma è rimasto il ragazzo semplice e divertente, ironico e gentile di sempre. Altri, con un centesimo del suo talento, perdono la testa facilmente. Lui è sempre lo stesso. Un campione, dentro e fuori del campo».
Ha un ricordo del papa polacco? «Sì, deve sapere che nel 1982, prima dei Mondiali di Spagna noi per sei mesi non potemmo giocare neanche una partita, come nazionale polacca. La ragione era politica: dopo il golpe di Jaruzelski, eravamo considerati una dittatura e gli altri si rifiutavano di giocare con noi. La nazionale passò da Roma e fu ricevuta in Vaticano. Io, come uno sventato, dissi a Papa Giovanni Paolo II se poteva dire una preghiera per la nostra squadra. Lui mi rispose, un po’ sorpreso: “Dio con il calcio non c’entra niente”. Poi noi arrivammo terzi, in quel mondiale. Qualche mese dopo , io ormai alla Juve, fummo ricevuti con tutta la società in udienza privata. Eravamo tutti lì, con Agnelli, Romiti, Boniperti. Il Papa arrivò e disse subito: “Dov’è Boniek?”. Io ero preoccupato, visto il precedente. Mi prese da parte e mi disse, sottovoce, “se avessi saputo che arrivavamo terzi l’avrei fatta, quella preghiera”».
Corriere dello Sport