Sarri si confessa al Corriere dello Sport: “Era nel mio destino venire ad allenare a Napoli”
Mister Sarri apre il suo cuore a Napoli ed ai tifosi azzurri. L’allenatore toscano è stato raggiunto dai microfoni del Corriere dello Sport. Ecco le parole del tecnico rivelazione del campionato.
Mi racconta della sua famiglia? «Mio padre era un operaio gruista, lavorava nella ditta che costruiva l’Italsider di Bagnoli. Per questo io sono nato, come un presagio, a Napoli, e qui ho vissuto fino ai tre anni. Mamma lavorava nella camiceria, come molte donne in quei tempi, nella mia Toscana. Tornammo a Figline nel 1964. Era una comunità unita e solidale. Ci conoscevamo tutti, ci aiutavamo tutti. Sa quella storia che oggi sembra una leggenda, il lasciare le chiavi attaccate alla porta? A Figline era normale. Giocavo per ore in strada al pallone con gli amici. E poi si andava all’oratorio, che per intere generazioni di ragazzi è stato, ovunque, la vera scuola calcio, il centro federale che non esisteva. A Figline c’era Don Aldo. Era un grande. Lui arbitrava, ma se c’era bisogno che giocasse si toglieva in un battibaleno la tunica e sotto aveva già la tuta. Era il cugino di Mauro Bellugi e questo aumentava la sua autorità in materia calcistica. E dove ha giocato Bellugi? Nel Napoli. Vede, tutto torna… Era proprio destino che io finissi qui…».
E quando comincia ad allenare? «Gli ultimi anni della mia carriera da calciatore, niente di che, li ho fatti a Stia, in prima categoria. Durante il campionato mi chiesero anche di allenare, avevo trentuno anni e una certa predisposizione a organizzare e forse a dirigere. Pensi che una volta, con gli allievi del Figline, dovevamo giocare, la domenica mattina, una partita importante. Il sabato però l’ allenatore litigò violentemente col presidente e si dimise. Per solidarietà con lui se ne andarono anche i dirigenti accompagnatori e tutti gli adulti. Per fortuna restò l’autista del pullman. Insomma andammo al campo degli avversari e io feci tutto, decisi la formazione, scrissi la nota e dissi all’ arbitro che l’allenatore purtroppo non poteva esserci perché si era sentito male, una cosa assai seria, ed era restato in pullman. Faccio notare che avevo quindici anni e pure che poi la vincemmo quella partita…».
Le altre tappe del suo inizio? «Allo Stia avevo detto che avrei tenuto la squadra qualche settimana ma poi mi appassionai. Mi piaceva molto più allenare che giocare. Passai al Monte San Savino. E vincemmo tutti i campionati, passando dall’eccellenza alla serie C. Pensi che il presidente si chiamava come lei, Veltroni, Giorgio Veltroni. Ma io ero diviso. Lavoravo in banca, mi occupavo dei cambi ed ero bravo. Manovravo decine di milioni e difficilmente sbagliavo operazioni. Avrei avuto una bella carriera, credo. E intanto avevo un buon stipendio. Ma allenare era infinitamente più bello. E poi con l’arrivo dell’euro c’era poco da giocare con i cambi. Insomma parlai con la famiglia e decisi. O Il calcio o la banca, mi dissi. E scelsi, non senza sofferenza. Passai alla Sangiovannese, sempre in zona, nell’aretino».
E lì incrociò Allegri, altro segno del destino… «Sì, ci fu una partita tra Sangiovannese e Aglianese, la squadra che Max allenava. Finì zero a zero, senza neanche un tiro in porta. Una noia mortale. Alla fine uno degli spettatori, che era anche un mio amico, gridò “Se siete allenatori voi due…”».
Per continuare la linea dei destini incrociati lei andò ad allenare a Pescara, dove Allegri aveva giocato… «Con la Sangiovannese avevamo vinto la C2 ed eravamo terzi in C1. Poi morì il presidente e la società andò in crisi. Così andai a Pescara…».
È più duro fare strada per un allenatore che non è stato giocatore di alto livello? «Ci sono due fattori che possono, ma solo possono, rendere più facile l’avvio della carriera di un allenatore: il primo è il nome, ovviamente. Il secondo è il sistema delle conoscenze che, inevitabilmente, aiuta. È più difficile, molto più difficile, fare strada per chi non ha avuto queste opportunità. Che comunque, sia chiaro, si sono conquistate sul campo, alla fine unico giudice. Se molti miei colleghi hanno giocato in serie A vuol dire che erano più bravi di me, da calciatori. Ma non necessariamente essere stato un giocatore di serie A significa essere per definizione più bravo ad allenare di chi viene dai campi di provincia».
La Redazione